THE SMASHING MACHINE. Nelle sale

Dai e dai, ci si doveva arrivare. Dwayne Johnson, detto The Rock, erede dei muscolari off limits (ri)mette i capelli: corvini, riccetti, a calotta. Ma resta appiccicato al personaggio del wrestler superdotato: dunque i combattimenti, i dopo gara a curare le ferite, il sostegno del coach ex rivale e della mogliettina-soprammobile, Dawn (Emily Blunt), che sopporta in cambio del lusso, lo segue come un’ombra a bordo ring e gli prepara i vassoi con gli antidolorifici. Stavolta però The Rock aggiunge all’avventura impensabili sfumature drammatiche, ripercorrendo la parabola di Rocky, Toro scatenato De Niro / La Motta e seguendo con diligenza il tracciato storico dei film sulla caduta e il riscatto. Johnson dimostra coraggio ad allontanarsi dalla comfort zone dell’omone sempre in piedi, dal pugno d’acciaio, saltellante da un grattacielo all’altro, per raccontare malinconie e paure di un campione che si crede invincibile ed è invece destinato, ohi ohi, a conoscere l’amaro sapore della sconfitta proprio mentre la sua vita privata va a rotoli. Rocky, appunto: scalinata e pugni alzati al cielo compresi. 

In realtà, questa è la vera storia di un lottatore di arti marziali miste, il leggendario Mark Kerr, che oggi ha 56 anni, va in giro per i festival promuovendo l’immagine del gigante venuto dal nulla che conquistò il palcoscenico dei combattimenti selvaggi, senza regole e senza pietà. Il ritiro non fu cosa facile. Ma tant’è: lo vediamo sui titoli di coda felice e sorridente mentre fa la spesa al supermercato. Mark / Dwayne, quello del film, è invece un ragazzo triste, irrisolto, dominato da un groviglio di conflitti interiori. Il colosso costruito attraverso un duro lavoro in palestra combatte per compiacere le aspettative del prossimo. Il malessere è antico, viene da un’infanzia malmessa. Kerr tenta di nascondere le inquietudini dietro le vittorie, il successo, la fama. Ma quando il corredo di consensi non l’appaga più, il corpo comincia a cedere e i match diventano un calvario insostenibile, anche le parole di sostegno del mentore Mark Coleman (Ryan Bader) e del rivale-motivatore Bas (Bas Rutten) perdono valore. Mark pensa di ritrovare la forza perduta attraverso i farmaci fuorilegge, ne diventa dipendente, cambia carattere e comincia a perdere. La sconfitta finale, dolorosa ma inevitabile, diventa l’anticamera della rinascita. 

Il quarantenne newyorkese Safdie, che a Venezia82 ha vinto il Leone d’argento come miglior regista, tenta di equilibrare il versante dello spettacolo con l’analisi intima dei personaggi, riuscendo solo talvolta nell’impresa, ma confezionando un movie drama di buona tensione. Costruisce il film sul corpo del protagonista, uno stangone di quasi due metri d’altezza, attraversando praterie di un’umanità che Johnson ben conosce. Vuole raccontare la distanza che c’è tra i bicipiti e il cuore, l’anima, la capacità di trovare una risposta ai rovesci esistenziali e a reagire. Mark ci mette un po’ per capire la lezione, ma è lecito sperare che sappia trovare la strada giusta per risalire. The Rock – anche produttore con A24 – è davvero bravo a calarsi nella dimensione autorale, per lui nuovissima dopo tanti blockbuster, dimostrando buone qualità anche nel ruolo a doppia uscita di vincente / perdente. Non un biopic, insomma, non un film sportivo vero e proprio, anche se i match coprono gran parte della storia e sono il valore aggiunto della favolona. Johnson ed Emily Blunt affrontano uno slalom tra i luoghi comuni, tuttavia duettando con efficacia. Dopo Jungle Cruise sono una coppia di fatto del cinema, così diversi eppure alla fine compatibili. E litigarelli, come Sandra e Raimondo in versione indie. 
THE SMASHING MACHINE di Benny Safdie 
(Usa, 2025, durata 123’, I Wonder Pictures)
 
con Dwayne Johnson, Emily Blunt, Oleksandr Usyk, Lindsey Gavin 
Giudizio: 3+ su 5 
Nelle sale