Se ognuno pensa a che infanzia ha avuto e immagina di vivere nel bosco con i fratelli, gli animali, due genitori presenti, è chiaro che può provare un sentimento di invidia e che lo stato è solo uno strumento di oppressione e disciplinamento. Ma la vera domanda è: si può decidere di cercare la felicità senza pensare alla sanità di chi non ha risorse, alla scuola di chi non può permettersi un insegnante privato? 

Tutte le famiglie felici sono uguali, e tutte le famiglie scombiccherate sono scombiccherate ognuna a modo suo, per fortuna. Sul suo sito la madre della famiglia nel bosco racconta che ha imparato a leggere a nove anni ed è cresciuta senza problemi, e vende telefonate a 200 dollari per trasmettere energia ad animali bisognosi di cura. Il padre intervistato sul recente accesso in ospedale dice che si è opposto all’uso di strumentario sanitario di plastica, perché loro sono contrari alla plastica. Possiamo giudicarli? Ognuno ha probabilmente genitori che hanno fatto cose similmente svirgolate. I genitori della famiglia del bosco dicono che la loro famiglia era felice, e quale diritto hanno di traumatizzare i figli di una famiglia felice portandoli in una comunità!

In realtà si tratterà di una misura provvisoria, nella comunità sono insieme alla madre e comunque non ne sappiamo molto ed è meglio così, perché la privacy in questo caso è solo tutela per i minori. Parliamo di noi quindi, non della famiglia nel bosco.

La critica allo stato e alla scuola

Se ognuno pensa a che infanzia ha avuto, magari in appartamenti di 50 metri quadri in mezzo a quartieri privi di spazi verdi, in una scuola dell’infanzia che cade a pezzi con un giardino minuscolo all’esterno, e immagina di vivere nel bosco liberi, sempre con i fratelli, con gli animali, due genitori presenti tutto il giorno, è chiaro che può provare anche un sentimento di invidia, e che lo stato è solo uno strumento di oppressione e disciplinamento.

È quello che in fondo pensa Ivan Illich, in “Descolarizzare la società”, del 1970. Per tutto il decennio la critica allo stato come apparato, e alla scuola come apparato ideologico, si riflette nelle critiche democratiche: da Althusser a Bourdieu a Foucault.

Ma l’uscita da quel decennio, forse per eterogenesi dei fini, è l’invenzione del reaganismo e del thatcherismo, ossia la fine del patto sociale. I l 1980 è anche l’anno del primo meetin g di Comunione e liberazione, in cui si comincia a parlare di sussidiarietà e di privato sociale in funzione antistatale.

Del resto Berlusconi i propri figli li manda in costose scuole steineriane, mentre le sue fedeli Moratti e Gelmini fanno a pezzi a colpi di katana qualunque cespuglio di scuola pubblica. Simile alle famiglie Maga negli Stati Uniti, il padre della famiglia del bosco dice giustamente: «Che male facciamo?». Ed è la domanda implicita che sostiene questo tipo di scelte, applaudita da molti che stanno commentando e approvando una scelta del genere. Possiamo biasimarlo?

Che bene facciamo?

La domanda però sottesa al patto costituzionale è un’altra, e dovremmo porla a noi stessi: «Che bene facciamo?» L’articolo 3 recita che è compito (bellissima parola scolastica) della repubblica “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Si può decidere di non partecipare e andare nei boschi? Perché no? Si può fare come Thoreau o Alex Supertramp McCandless, alla ricerca della felicità perché il mondo sta letteralmente andando in rovina e portarsi dietro anche i figli? Si può decidere in nome di questa felicità di rinunciare alle macchine, all’acqua corrente, al gas, alla plastica, ai vaccini?

Certo, ma il problema è quanto si sta facendo per gli altri. Mi sto preoccupando per la sanità di chi non ha risorse? Mi sto preoccupando della scuola di chi non può permettersi un insegnante privato? Mi sto preoccupando, essenzialmente, dei figli degli altri?

Attacco alla scuola pubblica

Lo stato sarà pure quella creatura hobbesiana, invadente e oppressiva, figuriamoci – siamo la generazione di Genova 2001 – ma è anche quello che garantisce velocemente un elicottero se per caso mangi dei funghi velenosi in un bosco e ti dà subito un farmaco per contrastare l’effetto tossico. Sarà anche un trauma dover andare via dal bosco, ma il trauma di restare disabili o morire a 6 anni per un mancato soccorso non è forse peggio?

Tenendo conto poi che oggi si può fare l’una e l’altra cosa, ce lo insegna il film di qualche anno fa, Captain fantastic. Anche lì c’è una famiglia che ha deciso di vivere nel bosco di fatto, diradando qualunque contatto con la vita urbana, finché la situazione diventa emotivamente ingestibile e psicologicamente dannosa, e a quel punto, si ritrova a accettare un compromesso, vivere non proprio nel bosco ma a contatto con la natura e comunque, soprattutto, andare a scuola.

Dalla pandemia in poi l’homeschooling è più che triplicato in Italia, e in alcune regioni come il Trentino, è aumentato del 740 per cento. Il caso della famiglia nel bosco è diventato in meno di un giorno il pretesto con cui la destra al governo può attaccare il valore della scuola pubblica, e fare egemonia culturale sulla pelle, letteralmente, dei bambini. Nel frattempo la fragile tenuta del patto sociale si sbriciola in fretta per i riflessi pavloviani di fronte alla difesa della famiglia ferita e per le spinte emotive telluriche che produce la difficoltà di vivere al tempo della gentrificazione, della crisi climatica, del consumismo pervasivo.

Però si può soccombere a quel senso di impotenza e di insofferenza e decidere di disertare il patto sociale in qualunque sua forma, oppure pensare di ridare senso a quel patto dall’interno, credere alla sanità e alla scuola pubblica, mandare i figli alle scuole pubbliche e a qualche festa dei compagni di classe, e magari chiedergli come stanno loro, i compagni, se hanno qualche problema in matematica o italiano, o condividere la bellezza dell’anticonsumismo, che è un po’ il senso del vivere sociale, come sta scritto all’articolo 3.

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