di
Federico Fubini

Le entrate da petrolio gonfiano le casse (e l’ego) del nuovo zar. Come costringere il Cremlino a ridurre la propria assertività

Questo articolo è tratto dalla newsletter «Whatever it takes» a cura di Federico Fubini, se vuoi iscriverti clicca qui.

Il cosiddetto «piano di pace» russo-americano di questi giorni è un documento straordinario. Molti europei osservano che quel progetto premia il Paese aggressore e punisce la vittima; la sua intera architettura mina alle fondamenta il principio più importante del diritto internazionale, secondo il quale i confini di uno Stato non possono essere spostati con la forza. È vero che affaccia l’ipotesi di offrire all’Ucraina delle garanzie di sicurezza, ma esse appaiono vaghe e comunque le potenze occidentali le hanno già fornite a Kiev in passato, per poi ignorarle.
Queste osservazioni sono di Mark Champion di Bloomberg, che continua: il piano «equivale alla capitolazione forzata dell’Ucraina in nome della conquista e del profitto, è la bozza di un moderno patto Molotov-Ribbentrop nel quale l’interesse di una parte nella partizione dell’Ucraina è territoriale e l’interesse dell’altra, commerciale. In una parola, è una vergogna».
Concordo, per quanto possa valere. Eppure ripetersi queste valutazioni o cercare affannosamente di inseguire gli Stati Uniti con un piano alternativo – come i governi europei hanno fatto ieri sera da Ginevra – non sposta una realtà che conosciamo, ma rifiutiamo di riconoscere: se ancora una volta siamo stati presi di sorpresa, se continuiamo a subire i diktat degli altri attori del sistema internazionale per poi cercare di rimediare senza una strategia, senza convinzione, è solo colpa nostra. Si può deprecare il cinismo di Donald Trump. Si può ripetere – correttamente – che Vladimir Putin ricorda sempre di più un tipico dittatore fascista della prima metà del ‘900 nella sua fase aggressiva. Ma questa ennesima crisi diplomatica e la situazione drammatica dell’Ucraina ce le siamo tirate addosso da soli. Guardiamo ai mari che ci circondano, e capiremo perché.



















































Houthi uno, Europa zero

Lo stretto di Bab el Mandeb all’ingresso del Mar Rosso verso Suez ha una larghezza di 25 chilometri nel punto più stretto eppure gli Houthi, una milizia tribale, bloccano da due anni il 70% dei transiti da e verso l’Europa. Invece lo stretto fra la Danimarca e la Svezia in entrata e uscita dal Baltico misura appena quattro chilometri nel suo punto più stretto, tutto in acque della Nato e dell’Unione europea e dunque in teoria è controllato dalle organizzazioni più ricche e potenti che la storia abbia mai visto. Eppure continuiamo a far passare esportazioni di petrolio russo per decine di miliardi di euro all’anno: l’equivalente di quanto stiamo pagando ogni anno per cercare di difendere l’Ucraina dall’aggressione della Russia stessa, finanziata con quei fondi. In altri termini, gli Houthi dello Yemen – senza economia, senza divise, senza Stato – dimostrano una capacità di proiettare la loro potenza sullo scacchiere internazionale superiore a quella dell’Europa. Persino loro.
Sono provocatorio? Naturalmente. Ma è passata da un pezzo – dopo tutti questi morti, dopo questa distruzione – la fase del linguaggio diplomatico. I fatti contano di più. E dicono che dopo che l’Unione europea ha messo sotto sanzioni circa seicento petroliere al servizio dell’industria del greggio russa, dopo i tetti al prezzo e dopo quasi quattro anni di misure sugli idrocarburi di Mosca, tutto non va nel migliore dei modi. I dati che sto per presentare sono elaborati dall’economista ucraino Andriy Klymenko e dalla sua squadra del centro studi Black Sea News, attraverso un controllo dei flussi di traffico delle petroliere russe da tutte le fonti disponibili.
Il risultato è che l’export di greggio e prodotti petroliferi, con cui Mosca sostiene la guerra, in volume sta aumentando: ventuno milioni di tonnellate di export in gennaio scorso, ventidue milioni in agosto, 23 a settembre e probabilmente ancora di più ottobre. La chiave è nel Mar Baltico, da cui parte almeno la metà di tutte le spedizioni di petrolio russo verso il resto del mondo dai porti di Primorsk (a nord-ovest di San Pietroburgo) e Ust-Luga (a sud-ovest di San Pietroburgo). Questa rotta è la principale fonte di finanziamento dell’aggressione all’Ucraina. Ai prezzi attuali vale circa fatturati per 55 miliardi di euro all’anno. La seconda rotta più importante muove da Novorossisk nel Mar Nero verso il Bosforo e i Dardanelli e vale circa il 20% dell’export; ma questo porto di carico delle petroliere russe è relativamente vicino al confine ucraino e sempre più esposto ai bombardamenti delle forze di Kiev, ha già subito seri danni e non è più affidabile per alimentare la macchina da guerra del Cremlino. Anche le rotte artiche (da Murmansk), dell’Estremo Oriente (attorno a Sakhalin) o gli oleodotti verso la Cina o l’Ungheria non hanno un’importanza paragonabile al Baltico.

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La battaglia del Baltico

In sostanza, la sostenibilità dell’intero progetto geopolitico di Putin – il disfacimento degli assetti europei seguiti alla fine della guerra fredda – dipende dal transito di un centinaio scarso di petroliere di greggio russo e di una sessantina di petroliere di prodotti raffinati dal Golfo di Finlandia, attraverso un angusto braccio di mare fra Copenaghen e Malmoe, fino all’Atlantico del Nord e alle destinazioni del resto del mondo.
Lo so che suono semplicistico, ma avete visto gli ultimi dati dell’economia russa? Già in rallentamento ben sotto l’1%, oggi viaggia a ritmi più che dimezzati rispetto all’inizio dell’anno. L’inflazione continua a correre vicina al 10%. Diciassette settori industriali su 24 risultano in recessione e gli altri (aziende della difesa incluse) in frenata. Le banche denunciano un aumento accelerato dei crediti in default, mentre il deficit pubblico sale e diventa più costoso. La Russia non è affatto sull’orlo di un collasso, ma un calo significativo delle entrate da petrolio – la singola fonte principale del bilancio pubblico, circa un quarto delle entrate pubbliche – può costringere il Cremlino a ridurre la propria assertività. Non sarebbe in grado di dettare le condizioni, come cerca di fare in questi giorni. Dunque, la posta di quelle cento petroliere di greggio e sessanta di carburanti che passano ogni mese dai quattro chilometri fra Danimarca e Svezia è colossale. Stiamo pagando centinaia di miliardi di euro all’Ucraina per compensare i danni finanziati da quel traffico.
Ma cosa fanno i Paesi dell’Unione europea per fermarlo, ostacolarlo, ridurlo seriamente? Praticamente nulla. Accettiamo che anche le navi sotto sanzioni o le navi della flotta fantasma passino indisturbate. Lo consideriamo legale. Ci nascondiamo dietro una convenzione delle Nazioni Unite che proibisce di impedire la navigazione. Ma è una foglia di fico.

Le navi fuorilegge

La questione riguarda principalmente le petroliere del greggio, perché l’export di carburanti russi è già in calo strutturale dopo i costanti bombardamenti ucraini sulle raffinerie. Prendete solo il mese di settembre, quando sono passate 94 petroliere di greggio: tre di esse trasportavano 383 mila tonnellate di petrolio senza battere alcuna bandiera; altre sei (725 mila tonnellate) avevano bandiere false delle isole Comore, del Benin o della Sierra Leone; altre quindici (1,7 milioni di tonnellate) erano nelle liste nere internazionali per le loro condizioni tecniche seriamente insufficienti e dunque per il rischio ambientale che creano; infine altre 38 petroliere (4,4 milioni di tonnellate di greggio) erano sottoposte a sanzioni europee, britanniche, canadesi e americane. Eppure sono passate tutte senza alcun problema, nel caso delle navi sotto sanzioni perché per loro è proibito attraccare nei porti europei ma non transitare da acque dell’Unione europea.
Non servirebbe molto, sul piano tecnico. Se nei quattro chilometri di mare fra Danimarca e Svezia gli europei fermassero le navi russe sotto sanzioni, quelle senza i requisiti ambientali minimi, senza copertura assicurativa, senza bandiera o con bandiera falsa, in settembre ne avrebbero bloccate circa sessanta, pari a circa un terzo di tutto l’export globale del greggio russo.
Basterebbe darsi le leggi adatte, perché quelle attuali non funzionano. In settembre l’Estonia ha sequestrato nel Baltico una petroliera russa della flotta fantasma che non batteva alcuna bandiera nazionale. L’ha fermata all’ancora per due settimane, ma il proprietario ha rapidamente cambiato nome al vascello (da Kiwala in Boracay) e l’ha registrato con bandiera di uno Stato africano in modo da farlo rilasciare. La nave è uscita dal Baltico e, su spinta del governo di Kiev, la Francia l’ha fermata di nuovo e l’ha ancorata a Brest, perché la nuova bandiera risultava falsa. Tempo un paio di giorni, un tribunale francese l’ha di nuovo lasciata andare.

L’incidente in Adriatico

Episodi così si ripetono, ma sono poca cosa rispetto al rischio ambientale delle petroliere della flotta fantasma organizzata dalla Russia per sottrarsi alle sanzioni. Secondo S&P Global essa vale fra 600 e 1.400 petroliere, un quinto del parco mondiale. Centinaia fra queste sarebbero state destinate alla distruzione o forti interventi di riparazione, per la vetustà che le rende pericolose e impossibili da assicurare. Intanto gli incidenti si ripetono, benché di solito vengano tenuti piuttosto sotto silenzio: il 18 febbraio di quest’anno, per esempio, la Aruna Gulcay ha lasciato una scia di 47 chilometri di petrolio in Adriatico non lontano da Ravenna (l’Italia continua a essere fra i compratori di materia prima russa, con altri Paesi europei).

Gli attacchi ibridi

Ma perché dunque i governi europei non mandano le loro marine militari nel Baltico a fermare questo traffico, quando potrebbero farlo in modo legale? Perché non facciamo saldamente del Baltico un mare presidiato dalle forze europee della Nato, dove siamo noi a dettar legge? Possibile che persino gli Houthi siano più efficaci di noi? La realtà è semplicemente che temiamo le ritorsioni di Mosca, i suoi atti di guerra ibrida: temiamo i droni sugli aeroporti, le esplosioni sui binari, i cavi tranciati in fondo al mare, i caccia di Mosca che seguono e coprono le petroliere (nelle acque territoriali estoni, è successo davvero). Non può essere un caso se proprio la Danimarca – il punto nevralgico del passaggio – è stata il Paese più preso di mira dall’ondata di azioni di disturbo su tutte le infrastrutture in autunno: è stato un avvertimento e lo abbiamo tutti capito benissimo.
Dunque preferiamo fare sempre troppo poco, troppo tardi. In fondo sosteniamo l’Ucraina a metà, negando i nostri sforzi per essa attraverso le nostre stesse esitazioni. Non stupiamoci se poi arrivano Putin e Trump con i loro «piani di pace».

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24 novembre 2025 ( modifica il 24 novembre 2025 | 10:32)