Report di Luca Pessina
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L’edizione 2025 del britannico Offal Fest ha segnato un ulteriore passo avanti per un evento che sta lentamente guadagnando una sua rilevanza nel panorama dei festival europei dedicati all’estremo.
Organizzato da un gruppo di appassionati locali e ospitato presso il noto Rebellion, locale situato nel centro di Manchester, l’Offal si sta imponendo con coerenza come punto di riferimento per chi cerca goregrind e death metal nella sua forma più brutale. Una nicchia nella nicchia, certo, ma seguita con devozione da un pubblico trasversale e internazionale che ha risposto con entusiasmo, portando al sold-out questa edizione.

Il dato più significativo è proprio questo: nonostante la natura di evento underground, l’Offal ha dimostrato di poter reggere il confronto con realtà più consolidate grazie a una crescita misurata e a una programmazione musicale sempre più attenta e curata.
In un contesto europeo in cui non mancano festival indoor orientati verso il death e il black metal nelle loro derive più concettuali o old-school, sono pochi quelli che scelgono di puntare sulle correnti più estreme, tra slam, tech/brutal death metal e grind nelle sue forme più ignoranti.
L’Offal sta colmando questo spazio con una certa intelligenza, proponendo un mix calibrato tra nomi di culto, esclusive nazionali e debutti internazionali pensati per chi segue da vicino queste sonorità.

Purtroppo non abbiamo potuto presenziare alla serata di apertura del venerdì – un pre-show che ha comunque riscosso buoni riscontri, con una selezione di band britanniche ben rappresentativa del tessuto locale – ma il weekend principale ha confermato la solidità dell’organizzazione.
Gli orari sono stati rispettati senza ritardi, la qualità sonora si è mantenuta su livelli alti per l’intero fine settimana e il clima generale è stato rilassato e partecipativo. La possibilità di uscire e rientrare liberamente dal locale ha reso tutto più vivibile, così come l’approccio discreto ma presente della security. Il Rebellion, pur essendo una venue di dimensioni abbastanza contenute, ha retto bene l’affluenza, confermandosi una scelta funzionale per questo tipo di eventi.

Il sold-out, inevitabilmente, spinge l’organizzazione a guardare oltre: per il 2026 è già previsto un cambio di venue, probabilmente con l’obiettivo di accogliere un pubblico ancora più ampio senza snaturare lo spirito del festival.
Ma prima di parlare del futuro, vale la pena concentrarsi su quanto successo in questi due giorni di musica estrema: una selezione artistica che ha saputo coinvolgere e colpire nel segno, senza compromessi. Un weekend compatto, ben bilanciato e chiaramente pensato da chi vive questi generi in prima persona.

SABATO 26 LUGLIO

Il primo gruppo che riusciamo a vedere con una certa attenzione sono i CHAINSAW CASTRATION, trio britannico senza basso ma con idee molto chiare su come far partire un pomeriggio all’insegna dell’eccesso. Tra slam, death metal e una spruzzata di deathcore, i loro brani scorrono rapidi, chiassosi e volutamente sgraziati, ma il pubblico locale – che pare conoscerli bene – partecipa con entusiasmo. I musicisti, a loro agio e visibilmente divertiti, si prendono anche il lusso di scherzare sui cliché del genere tra un pezzo e l’altro, senza intaccare la forza d’urto di una performance che punta più alla fisicità che all’impatto tecnico.
Seguono gli IMPURIST, i quali procedono a cambiare registro in maniera piuttosto netta. Si percepisce subito un altro tipo di ambizione: riff più articolati, un certo gusto per l’atmosfera, venature black metal inserite in un contesto ancora fortemente death metal.
Sul palco si muovono musicisti navigati – tra cui membri passati e presenti di Extreme Noise Terror, Hellbastard, Infected Disarray e Gorerotted – e si sente. Ben McCrow, al microfono, è una presenza sicura, che guida il set con autorevolezza, senza eccessi. Il risultato è coeso, pesante ma non ottuso, perfettamente calato nella fascia pomeridiana del festival.
Il debutto internazionale dei finnici 55GORE è, come previsto, uno di quei momenti che dividono. Il loro goregrind è la consueta caricatura estrema del genere: batteria cadenzata, chitarra slabbrata che pare un flusso di detriti, voce gargantuesca uscita da un tubo otturato. Il pubblico, però, reagisce con entusiasmo, saltellando in cerchio e agitando gli arti con l’aria giocosa che solo certi suoni iper-esagerati riescono a generare.
È puro caos performativo, che non pretende credibilità musicale, ma funziona come elemento di rottura.

Con i BEGGING FOR INCEST si torna su binari più familiari: deathcore e slam infarciti di breakdown a valanga e rallentamenti esasperati. Il proverbiale cattivo gusto tedesco emerge già dal nome della band per arrivare alla musica infarcita di tutto quel corollario ‘bree bree’ tipico del filone. La formazione, attiva da anni e con una fanbase ben delineata, sa tuttavia come dosare l’ignoranza e riesce a tenere alta l’attenzione nonostante l’impianto fortemente derivativo.
La folla attende e invoca i breakdown, e quando arrivano, la sala si scuote come una molla. Non manca qualche passaggio più ragionato nella scrittura, ma è chiaro che qui si viene per le botte e la band lo sa bene.
Dal canto loro, i PUTRIDITY portano una ventata di precisione chirurgica: il loro death iper-tecnico è complesso, vorticoso, stratificato. In molti sotto il palco ne seguono ogni passaggio come si trattasse di una partitura da decifrare.
Il gruppo ha attraversato vari cambi di formazione negli ultimi anni, ma l’equilibrio raggiunto ora sembra solido. Il nuovo materiale tratto da “Morbid Ataraxia” viene accolto con entusiasmo da un pubblico attento e preparato. I pezzi si snodano come cunicoli tortuosi, tra accelerazioni spaventose e sezioni intricate in cui il groove si deforma in maniera quasi inorganica. C’è insomma poco spazio per l’improvvisazione o l’impatto da baraccone: qui si ascolta, si analizza e si applaude per reale stima.

Con i CEREBRAL EFFUSION si rientra poi nei territori più solidamente codificati del ‘brutal’ death metal classico, ma il risultato è tutt’altro che scolastico. La band spagnola, rientrata in attività dopo un periodo di silenzio, appare rigenerata. I suoni sono profondi, calibrati per colpire allo stomaco, ma con una chiarezza che permette di cogliere la costruzione interna dei brani.
Il set si muove con fluidità tra i prevedibili pattern sincopati e rallentamenti densi come cemento, seguendo quella scuola popolarizzata ormai tanti anni fa da etichette come Unique Leader, Unmatched Brutality e simili. Il pubblico non è distratto: segue, reagisce, partecipa con misura, dimostrando di conoscere bene la materia.
Kosme, al basso e alla voce, è visibilmente soddisfatto e regge l’intera esibizione con un misto di controllo e trasporto. A tratti sembra quasi si voglia trattenere, come a lasciare spazio alla musica e alla sua dinamica interna, ed è una scelta che funziona. Non c’è alcun bisogno di eccessi visivi o teatrali: la band convince per la coerenza della proposta e per la lucidità con cui la porta in scena. Uno dei momenti più compatti dell’intera giornata.

Poi arrivano gli SKINLESS, attesissimi, in una veste che mescola nostalgia e concretezza. Lo show è un evento nell’evento: “Progression Towards Evil” eseguito per intero, per la prima volta in assoluto.
Nonostante il tempo passato e qualche inevitabile segno dell’età, la band – che da tempo limita parecchio le sue sortite live – non dà mai l’impressione di arrancare. Al contrario, il gruppo newyorkese affronta questo ritorno al proprio passato con lucidità e mestiere, dosando bene l’energia senza mai perdere in impatto.
Il sound è rotondo, imponente, calibrato sulle frequenze basse che dominano l’album originale. Sherwood Webber è ancora una presenza trascinante: non ha bisogno di strafare, si muove sicuro e sa coinvolgere, dosando l’intervento tra un brano e l’altro e mantenendo alta la tensione anche nei passaggi più elementari.
L’esecuzione è fedele all’originale ma con qualche piccola variazione che dà vita e attualità ai pezzi.
Il pubblico, ovviamente, è con gli statunitensi fin dal primo istante: il pit si apre, si chiude, si riallarga. C’è partecipazione, sì, ma anche una estrema forma di rispetto per un disco che ha segnato un’epoca per chi è cresciuto in quell’ambito. In chiusura, a sorpresa, arriva anche “The Optimist”, fuori scaletta ma accolta come un regalo inaspettato. Un’aggiunta che corona una performance energica e pienamente riuscita. Gli Skinless, pur consapevoli della propria dimensione storica, non si adagiano: dimostrano di essere ancora qui, presenti, vivi.

DOMENICA 27 LUGLIO

Per noi, l’ultima giornata dell’Offal Fest si apre con i londinesi ANCIENT RIVALRY, che mettono subito le cose in chiaro: death metal diretto, nervoso, ma con una chiara attitudine hardcore. Non è un tentativo maldestro di ibridazione, bensì un linguaggio naturale per una band che proviene da quell’ambiente e ne mantiene l’energia frontale, la fisicità, la postura collettiva.
Alcuni passaggi richiamano gli Obituary per l’essenzialità dei riff, altri virano persino verso i Merauder e il tutto, almeno in questo contesto, funziona: l’impatto è buono, l’attitudine è quella giusta e il pubblico li accoglie con calore, pur se a quest’ora del giorno non è ancora del tutto compatto sotto il palco.
A seguire, i VULGAR DISSECTION propongono invece una formula più serrata e mediamente strutturata. I ragazzi sono giovani ma determinati, con idee abbastanza chiare su come coniugare pesantezza e leggibilità: i riff risultano articolati, ma non troppo contorti, i tempi si spostano con logica e certi brani presentano persino ritornelli e passaggi che mirano a restare impressi.
Il tutto non pare un tentativo di rendersi più accessibili, quanto un’intenzione compositiva ben precisa. L’accostamento ai primi Dying Fetus viene quasi naturale, almeno per l’alternanza tra groove e tecnica. La risposta del pubblico è buona, e la band può dirsi promossa.

Dopo due set più lineari arriva una virata netta con i londinesi BASEMENT TORTURE KILLINGS, ormai una presenza fissa nei circuiti grind e death metal più oltranzisti del Regno Unito.
La loro proposta affonda nel death-grind più classico, con un occhio ai classici Carcass e primi Exhumed, ma lo fa con piglio teatrale e una vena sarcastica che ne esalta l’identità. I pupazzi lanciati sul pubblico creano subito un’atmosfera da macabro cabaret, ma dietro la messinscena c’è una band ben rodata, che sa costruire un set coinvolgente con pochi elementi: riff che flirtano col thrash, doppie voci abrasive, ritmiche sempre a fuoco. L’energia cresce e la gente inizia a scaldarsi davvero.
Il clima si fa ancora più sghembo con l’ingresso in scena dei PLASMA, veterani del goregrind tedesco più marcio e fratelli spirituali di gente come Cock and Ball Torture. Il loro approccio è volutamente grottesco: groove grasso, tempi che arrancano con malizia e una tendenza irresistibile a voler far muovere il pubblico più che aggredirlo. I riff sono spesso semplicissimi e si intrecciano con delle voci che come al solito possono risultare caricaturali, ma che dal vivo funzionano.
Nessuna pretesa di ‘serietà’ estrema: solo una mezz’ora di musica altamente distorta e divertita che fa il pieno di consensi, in sala e al merch.

Gli IMPERIOUS MORTALITY, dal canto loro, rappresentano la faccia opposta della medaglia: death metal brutale, sì, ma eseguito con rigore e compostezza. Il trio danese, scoperto da New Standard Elite, sinora ha già dato prova di una certa maturità con vari EP, e anche qui dimostra di sapere come costruire una performance che tenga insieme impatto e precisione. Il riffing di chitarra appare pieno di pinch harmonic, ma con alcune derive più lente e dissonanti che sembrano anche guardare agli Immolation. Non è un’esibizione da fuochi d’artificio, ma conquista per solidità e senso della misura. Applausi meritati.
Con gli INIQUITOUS SAVAGERY si resta a grandi linee sullo stesso tipo di sound, ma si alza sensibilmente il livello di coinvolgimento: gli scozzesi, spesso accostati ai Defeated Sanity per stile e impostazione, mettono in scena una delle esibizioni più intense della giornata. ‘Brutal’ death tecnico ma sempre leggibile, con cambi di tempo frequenti ma raramente gratuiti, e un frontman, Liam McCall, che domina la scena con una sicurezza magnetica.
Non c’è nulla di costruito nel loro approccio: è un’esplosione costante di tensione, di energia controllata, che trova sfogo in pezzi nei quali si ritrovano sia partiture serratissime che avvitamenti più contorti e pesanti. Il pubblico risponde con vigore e sotto il palco si torna a pogare con convinzione, alla vecchia maniera. Una delle migliori sorprese del festival.

A questo punto, gli italiani INDECENT EXCISION si trovano a dover affrontare una sfida non indifferente: esibirsi con una drum machine in un contesto in cui molti batteristi sono stati tra i protagonisti della tre giorni. Il rischio di apparire freddi o ‘compromessi’ è reale, ma la band riesce a superarlo con intelligenza e mestiere. Il set è asciutto, ben costruito, e mette in evidenza soprattutto il lavoro di chitarra, notevolmente affinato negli anni e oggi ricco di sfumature che vanno oltre il death metal più canonico. I brani dell’ultimo “Into the Absurd” si fanno notare per varietà e complessità, e il pubblico, inizialmente sorpreso, finisce per apprezzare con convinzione. Una prova difficile, ma superata nettamente.
I WORMED arrivano quindi sul palco quando l’attenzione del pubblico comincia fisiologicamente a calare, ma bastano pochi minuti perché l’atmosfera si carichi nuovamente.
La band madrilena, negli anni diventata una delle più personali in ambito death metal, è sempre più difficile da vedere dal vivo: un fatto che rende la loro presenza all’Offal Fest un altro evento nell’evento.
Il set è denso, ipercompresso, dominato da strutture opprimenti e da un’estetica sonora completamente aliena. Non c’è spazio per il groove o la violenza frontale gratuita: i Wormed operano in un’altra dimensione, fatta di blast asfissianti e fraseggi quasi meccanici, su cui si innesta la voce di Phlegeton, performer carismatico, preciso, a tratti persino elegante nel suo ruolo di ‘narratore cosmico’. Ogni brano sembra emergere da una voragine tecnica e concettuale, senza punti di riferimento facili.
Non è una musica che cerca la connessione immediata, ma quella immersiva, totalizzante. E in questo la band riesce perfettamente. Il pubblico, pur provato dalla lunga giornata, resta in larga parte incollato alla performance fino all’ultimo minuto, quasi soggiogato da questa spirale di brutalità tecnologica. È un set spaventoso, sì, ma anche stranamente raffinato, che conferma ancora una volta la posizione unica dei Wormed all’interno del genere.

I DEFEATED SANITY salgono per ultimi, in una posizione ormai pienamente consolidata da headliner di riferimento per l’intero filone del death metal più tecnico e opprimente.
Da anni ormai non hanno più bisogno di presentazioni: la loro reputazione si è costruita tanto in studio quanto sul palco, e oggi che l’attività live è tornata centrale nel loro percorso, il risultato è una macchina perfettamente oliata. Il set attinge abbondantemente dal più recente “Chronicles of Lunacy”, che dal vivo guadagna in spessore e immediatezza, ma non mancano episodi del passato, scelti con intelligenza per rappresentare ogni fase della loro evoluzione.
In mezzo a brani costruiti su metriche implose e fraseggi impossibili, spuntano rallentamenti tossici e momenti di groove che arrivano come colpi bassi ben assestati. È questa dialettica a rendere il loro live così efficace: l’alternanza fra brutalità chirurgica e aperture più elastiche, in cui si intravedono influenze jazz e una consapevolezza musicale fuori dal comune.
Il pubblico è ampiamente partecipe, ma anche un po’ in ascolto: in certi frangenti c’è meno caos e più attenzione. Si avverte che molti sono lì proprio per loro. Il suono è potente, il drumming di Lille Gruber è raffinatissimo, e la band suona come un organismo unico e compatto.
A fine set, si ha la netta sensazione di aver assistito non solo a una prova di forza, ma a una vera dimostrazione di padronanza linguistica del genere. Nessuna sbavatura, nessuna fatica apparente: i Defeated Sanity chiudono il festival nel modo migliore, con uno show intenso, lucido, risoluto.