Dove i perdenti vedono strade ghiacciate, i vincenti mettono su i pattini da ghiaccio. E all’indomani dell’atteso 2 a 1 alle regionali – Campania e Puglia al campo largo e Veneto al centrodestra – Giorgia Meloni e i suoi alleati si apprestano a calzare le lame e pattinare. Per raggiungere e tagliare il traguardo più ambito: le elezioni politiche del 2027, che per la leader di Fdi si traducono in un altro giro di valzer a Palazzo Chigi.

Ed è al voto che si terrà tra un anno e mezzo che tutti pensano quando dalle urne arrivano i verdetti delle tre regioni alle urne. Per il partito della premier il risultato è in chiaroscuro. Tolta la Puglia, dove per il centrodestra non c’è mai stata partita, il “mastino” Edmondo Cirielli in Campania non ha sfondato, rivelandosi quell’underdog in cui alcuni, in via della Scrofa, avevano sperato. Ma Fdi tutto sommato ha tenuto, evitando il sorpasso di Forza Italia, con gli azzurri che avevano schierato nomi forti nelle liste e giocato una campagna elettorale attorno al ricordo di Silvio Berlusconi, che a Napoli e dintorni fa sempre presa.

A lasciare l’amaro in bocca, in via della Scrofa, è soprattutto il responso che arriva da Palazzo Balbi. Con la Lega che, a dispetto di quanto avvenuto per le ultime elezioni europee e per le politiche del 2022, non cede il passo al partito della premier. Complice l’effetto Zaia, con l’ex governatore capolista per il Carroccio in tutte le province, forse non a caso mai menzionato da Meloni nel comizio di martedì scorso a Padova per lanciare la volata finale all’enfant prodige del Carroccio Alberto Stefani. Dimenticanza che non sarebbe passata inosservata in quel di Venezia: si narra che il Doge non abbia gradito né mandato giù il passo falso.

Il day after

Fatto sta, che mentre la premier era impegnata nell’ennesimo vertice internazionale (in Angola), a via della Scrofa ieri era già scattato il day after. Prossimo appuntamento elettorale in agenda il referendum sulla giustizia, ma non è certo la consultazione referendaria a turbare i sonni di Meloni e i suoi. Lì la rotta è tracciata, quasi scolpita su pietra: nessuna politicizzazione della riforma che deciderà del futuro delle toghe. Remake di scivoloni in salsa renziana non sono ammessi: comunque vada, si va avanti e si tira a campare. A suggerire per primo dov’è che andranno a parare la presidente del Consiglio e i suoi alleati è proprio Renzi. «Con questa legge elettorale – osserva l’ex presidente del Consiglio – Meloni a Palazzo Chigi non ci rimette più piede», ragion per cui «da domani mattina proverà a cambiarla». Suggestioni e trame di Palazzo? Niente affatto. Il tema era già sul tavolo, ma i risultati registrati in Campania, Puglia e Veneto accelerano l’intenzione dei meloniani di mandare in soffitta il Rosatellum con cui il campo largo – da Renzi ad Avs, passando per Pd e M5S, sempre che il fronte non si sfasci prima – potrebbe seriamente insidiare la riconferma dell’attuale maggioranza nel 2027. A dirlo chiaramente, senza girarci intorno, è il responsabile organizzativo di Fdi Giovanni Donzelli, fedelissimo della premier. «Se dovessimo votare oggi – ammette – non ci sarebbe la stessa stabilità politica né in caso di vittoria del centrodestra né in caso di vittoria del centrosinistra». I numeri del resto sembrano dargli ragione. Con l’attuale sistema misto – 37% dei seggi assegnato con un sistema maggioritario con collegi uninominali, il 61% dei seggi ripartito col proporzionale – e il campo largo unito si rischia un pareggio. Ovvero la paralisi. «L’Italia – mette le mani avanti Donzelli – sta godendo in questo momento non soltanto di un buon governo, ma anche di una stabilità politica che è frutto della compattezza del centrodestra e di una divisione che c’era stata alle scorse elezioni politiche all’interno del campo largo». Oggi suonerebbe tutt’altra musica. Per questo, per evitare l’impasse, la premier accarezza l’idea di un sistema che ricalchi quello delle regionali. In sintesi, un proporzionale con un consistente premio di maggioranza, una legge congegnata per agevolare la sua riconferma a Palazzo Chigi. Ma è cosa nota che la riforma elettorale non ha mai portato bene a chi, di volta in volta, ha dato le carte. «La strada da battere per noi resta quella – replicano dai piani alti di via della Scrofa – Per il resto, “fattore Giorgia” a parte, non resta che affidarsi agli scongiuri».


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