ANCONA – La sostituzione delle protesi al seno diventa un incubo fatto di ricoveri, cicatrici e lunghe terapie antibiotiche. Pensava di modellare l’aspetto estetico, si è invece trovata a fare causa al chirurgo plastico un’anconetana di 50 anni finita sotto i ferri per tre volte nel giro di nove mesi, tra il 2017 e il 2018. Nei giorni scorsi, il giudice civile Andrea Marani ha condannato il medico, residente a Messina, a risarcire la paziente con 45mila euro. Il procedimento è stato incardinato ad Ancona poiché la mediazione (non andata a buon fine) era stata proposta al tribunale di corso Mazzini.
APPROFONDIMENTI
I fatti
La donna, assistita dall’avvocato Luca Sartini, si era sottoposta nel 2008 a un intervento di mastoplastica additiva. Intervento riuscito e coordinato dal chirurgo siciliano, nel suo studio privato. Nove anni dopo, la paziente si era rivolta di nuovo a lui per la sostituzione delle protesi. Prima dell’operazione, avvenuta a Messina nel dicembre 2017, non ci sarebbe stata una visita diretta, ma l’invio su Whatsapp da parte della donna delle foto del seno e le misurazioni toraciche. Non ci sarebbero stati neppure esami preparatori. Nei mesi successivi, l’anconetana aveva iniziato ad accusare dolore, con la perdita di asimmetria e la dislocazione delle protesi. C’era stato bisogno di un secondo intervento, sempre nello studio del chirurgo. Anche in questo caso, stando alla paziente, non c’era stata una visita pre operatoria e un’adeguata informazione sui rischi dell’intervento.
A settembre 2018 era dovuta correre al pronto soccorso di Torrette. La diagnosi: una grave infezione da stafilococco. Era stata operata d’urgenza per l’espianto della protesi di destra e il lavaggio della tasca infetta. Era seguita una lunga terapia antibiotica e per mesi la 50enne aveva dovuto fare i conti con l’asimmetria mammaria. Stando al giudice, la consulenza tecnica eseguita nel corso del procedimento «fornisce un quadro chiaro di inadempimento professionale, articolato in carenze pre operatorie, errori tecnico-chirurgici e condotta post operatoria non conforme». Per quanto riguarda il primo punto, è emerso con la consulenza che la pianificazione del primo intervento era stata effettuata «a distanza, basandosi su fotografie e misure inviate tramite Whatsapp senza una visita clinica diretta» che sarebbe stata necessaria a distanza della prima mastoplastica. Ci sarebbero state anche «una scelta protesica sbagliata» (un volume inadeguato alla caratteristiche fisiche della paziente) e una «tecnica chirurgica non conforme alle leges artis». Nonché «una gestione post operatoria inefficiente», affidata «a sporadiche comunicazioni via Whatsapp anziché a controlli regolari e programmati» che avrebbero potuto fermare in tempo l’infenzione. Per il consulenti non c’è alcun nesso tra il peggioramento delle condizioni di salute della donna, la ripresa anzitempo dell’attività fisica e l’assunzione di sostanze e medicinali, come invece sosteneva la difesa.
