L’altra sera il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha dichiarato che “l’accordo di ottobre sul cessate il fuoco a Gaza offre barlumi di speranza”, e che l’adozione della risoluzione del Consiglio di sicurezza “rappresenta un passo importante” per consolidarla.

Quest’ultimo tratto della dichiarazione è doppiamente significativo. In primo luogo, perché il richiamo a quella risoluzione ricorda la novità – quantomeno sulla carta – di un intervento nella Striscia che non elude, ma riafferma, la necessità di smilitarizzarne le formazioni terroristiche. In secondo luogo, perché questa riaffermazione è immediatamente successiva ai tentativi di sabotaggio del piano per Gaza in cui si stanno impegnando agenti interni ed esterni alla stessa galassia delle Nazioni Unite. È a dir poco significativo il fatto che il segretario generale evochi quella risoluzione a poche ore dal comunicato degli “special rapporteur” e degli “esperti indipendenti” che ne denunciavano gli intenti coloniali e di sopraffazione.

Ma Guterres non si è limitato a compiacersi dell’adozione della risoluzione: ne ha anche reclamato l’attuazione, dichiarando che “è essenziale tradurre questo slancio diplomatico in progressi concreti e urgenti sul campo”. Oggettivamente, un altro ceffone a quel manipolo di consulenti dell’Onu secondo cui il piano per Gaza doveva essere messo nel nulla a furor di kefiah per fare posto al solito protocollo anti-israeliano che assolve Hamas legittimandone le aspirazioni di radicamento ulteriore.

Inutile precisare che questo magari precario – ma certamente preciso – posizionamento del vertice rappresentativo delle Nazioni Unite non è l’effetto di un’autonoma resipiscenza del segretario generale che, senza sosta e per due anni, ha curato gli interessi della pace nella misura in cui essi coincidevano con quelli di Hamas. È l’effetto, forse provvisorio ma innegabile, della realtà che si è squadernata in faccia a tutti dopo un biennio di guerra: e cioè che nulla può essere fatto per il futuro di Gaza se Hamas avrà un futuro a Gaza. Una realtà che per troppo tempo si è fatto finta di considerare pericolosa solo per Israele e solo perché Israele vi avrebbe imposto il proprio giogo, mentre quella risoluzione finalmente riconosce che la situazione di Gaza “minaccia la pace regionale e la sicurezza degli Stati vicini”.

Non è la fine del conflitto, nemmeno lontanamente, ma è la fine dell’idea che il conflitto possa aver fine se si pensa di ritornare al 6 ottobre. E che Israele sia disposto a tornarvi.

Iuri Maria Prado