di
Antonio Polito

La relatrice della Palestina all’Onu aveva commentato l’assalto alla «Stampa»: «Che sia di monito perché torni a fare il proprio lavoro». Ma così si dimostra contraria al libero dibattito delle idee, alla diversità di vedute, al confronto che in democrazia non rinuncia mai a mettere allo stesso tavolo anche le opinioni opposte

Francesca Albanese appartiene a quel genere di persone che vogliono «raddrizzare il legno storto dell’umanità». 

Per questo il suo «magistero» presso i giovani è pericoloso: perché predica che il mondo non potrà mai essere giusto e felice finché non vincerà la sua Causa. Che nel caso specifico è la causa palestinese. Ma è una tesi che nel corso della storia contemporanea, da Hegel in poi, è stata applicata a qualsiasi cosa: la Nazione, la Classe, la Razza, la Religione



















































Da questo punto di vista si può dire che Albanese è una fondamentalista. Perché pretende di salvare l’umanità da Israele, per giunta vestendosi dell’autorità dell’Onu. 

«Fra tutti gli ideali politici, quello di rendere la gente felice è forse il più pericoloso; esso porta invariabilmente al tentativo di imporre agli altri la nostra scala di valori superiori, per far sì che si rendano conto di ciò che a noi sembra della massima importanza per la loro felicità, al fine, per così dire, di salvare le loro anime». Lo ha scritto Karl Popper ne «La società aperta e i suoi nemici».

Ecco perché Francesca Albanese, pur condannando le violenze dei teppisti pro-Pal alla redazione della «Stampa», si sente dalla loro parte, ne capisce l’urgenza e le emozioni. E dunque avverte la stampa tutta: «Che sia di monito perché torni a fare il proprio lavoro». Colpirne uno per educarne cento. 

Ecco perché sale così di frequente in cattedra, novella «maestrina dalla penna rossa» che insegna il Verbo anti-sionista e corregge gli «errori»; al massimo, se sono in buona fede, li perdona, come fece col sindaco di Reggio Emilia per umiliarlo mentre quello la premiava, ma che non accada mai più. 

Ed ecco perché è una nemica della società aperta, e cioè del libero dibattito delle idee, della diversità di vedute, della complessità del reale, e del confronto che in democrazia non rinuncia mai a mettere allo stesso
tavolo anche le opinioni opposte.

È un fondamentalismo pro-Pal che si applica perciò anche a chi, anzi forse innanzitutto a chi, è stato più attento alle ragioni dei palestinesi e più critico dei comportamenti di Israele, come ha fatto in questi mesi La Stampa di Torino con i suoi reportage, i suoi commenti e le sue analisi di qualità. L’estremismo non accetta compagnie, ma solo subordinati.

Andrea Malaguti, direttore del giornale colpito a cui va la solidarietà del «Corriere» e dei suoi giornalisti, ha ricordato ieri gli slogan intonati nel corso dell’irruzione: «Giornalista, sei il primo della lista». «Giornalista, ti uccido». E ha aggiunto: «Slogan da Brigate Rosse, chissà se lo sanno. Suppongo di no». 

E se invece lo sapessero? Se invece avessero fatto ciò che hanno fatto proprio perché noi sapessimo che loro lo sanno? 

Ogni tentativo di banalizzazione, come quello ahimè compiuto dal ministro Piantedosi, il quale semplifica dicendo che per i ragazzi del centro sociale Askatasuna «ogni motivazione ideale» è buona per fare un po’ di teppismo, sottovaluta la potenza che le idee possono avere sul comportamento dei giovani. E invece non dobbiamo dare ragione a chi sui social è tornato a espressioni come «sedicenti pro-pal»: ripetendo il luogo comune di quella sinistra, a sinistra del Pci, che considerava i terroristi rossi come «compagni che sbagliano». Gli stessi «compagni» che nel 1977 uccisero l’ex partigiano Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa, colpevole di essere un «pennivendolo di Stato».

So benissimo che oggi in Italia non ci sono le condizioni politiche e sociali, per un ritorno del «partito armato». Ma neanche allora, negli anni di piombo, c’erano le condizioni per riprendere la Resistenza imbracciando un fucile. Eppure ci fu chi lo fece, e non furono pochi. Aggiungo che l’appello alla causa palestinese può creare una miscela esplosiva anche perché è una causa internazionale, che è già stata usata per alimentare un sanguinario terrorismo internazionale contro i paesi occidentali.
Insomma: quando suona la campana, come l’altro giorno a Torino, è bene ricordare che suona per ognuno di noi. 


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30 novembre 2025 ( modifica il 30 novembre 2025 | 15:51)