di
Sara D’Ascenzo
Giornalista, scrittore, conduttore tv, si definisce «pasoliniano». È al debutto nella narrativa con «Amami come io t’amo» ambientato a Treviso: «Contro l’ipocrisia della provincia»
Per i più pruriginosi butta lì una battuta a inizio intervista. Ed è da lì che si comincia. Alfonso Signorini, 61 anni, milanese. Una vita nel giornalismo e nel gossip, nella lirica e nelle grandi biografie – quella sulla Callas, «Troppo fiera, troppo fragile. Il romanzo della Callas» è longseller – debutta nella narrativa con il romanzo «Amami quanto io t’amo», da un verso della «Traviata», che sarà presentato il 3 dicembre alle 18.30 alla Libreria Rizzoli nella Galleria Vittorio Emanuele II, a Milano in dialogo con Elvira Serra. E lo ambienta a Treviso, città di provincia nel cuore del Veneto.
Signorini, non sarà che a Treviso qualcuno le ha spezzato il cuore?
(Ride, ndr) «I veneti purtroppo non sono buoni amanti».
Sa quanti si offenderanno?
«Con i veneti ho avuto solo un’esperienza, in gioventù… Con altri ne ho avute parecchie, eh… Non è che sono Santa Maria Goretti… Era molto difficile portare avanti la relazione, c’era un problema di mentalità individuale, un po’ chiusa. Però sotto sotto, con qualche bicchierino tutto diventa più facile…».
Torniamo a Treviso. Nel romanzo cita luoghi precisi della città e della toponomastica. Google maps o memoria?
«Conosco molto bene la città, perché ho casa a Cortina e tanti amici o sono trevigiani o lo sono diventati; sono stato ospite molto spesso a casa loro durante il weekend, durante la stagione invernale delle grandi mangiate, delle scampagnate nelle ville, conosco le storie familiari. E per scrivere ho vissuto a Treviso in incognito un mese e mezzo. Alloggiavo in una pensioncina: loro sapevano ovviamente chi ero ma è stato bello. La sera mi piaceva camminare lungo i canali, sono stato a fare la spesa al mercato di San Liberale, mi sono divertito a conoscere le campagne, Asolo, Castelfranco, Vittorio Veneto».
Nel romanzo si racconta di un amore impossibile, frenato dalla mentalità chiusa.
«Descrivo la realtà che conosco meglio. È un luogo fisico, ma è anche la metafora di una struttura sociale molto dura da scalfire, in cui è molto difficile far breccia, un po’ la rappresentazione metaforica di tutte le convenzioni borghesi di cui siamo vittime e che già Pietro Germi nel film “Signore & Signori” aveva messo alla berlina».
Descrive la provincia. È così terribile?
«La vita provinciale si assomiglia ovunque, è qualcosa che viviamo sulla nostra pelle e poi ci porteremo avanti per tutta la vita. Le persone vivono quelle realtà e ne fanno un caposaldo, un “modus vivendi” da cui poi fuggire o liberarsi diventa molto difficile. Ma non è solo italiana: in Inghilterra, negli Usa, è sempre uguale. La provincia del romanzo è rappresentata da quella ossessiva attenzione al passato e alle tradizioni, da un’assoluta mancanza di volontà di cambiamento. L’Acero rosso da cui proviene Alvise, il protagonista, rappresenta un mondo sempre uguale a sé stesso, con le sue ritualità».
Il punto di svolta nel protagonista avviene a Cortina una notte in cui a letto sono due coppie insieme. Ricordi o licenza poetica?
«È quel pensiero stupendo, come cantava Patti Pravo, da parte di Alvise di voler essere quella donna che dà piacere al suo amico. È un pensiero che a volte è venuto anche a me, a parecchi di noi, se abbiamo il coraggio di ammetterlo. È una fase estrema, non per niente viene vissuta una tantum, ma c’è. Il dramma vero di questo racconto è che fondamentalmente Leonardo, alla fine, si rende conto che Alvise era il suo unico amore».
Anche lei è stato infelice per amore?
«Amami quanto io t’amo esprime il bisogno di essere corrisposti ed essere amati che ciascuno ha dentro di sé. Quando diventi adulto ti dicono che l’importante è amare, ma nella quotidianità mi verrebbe da dire… “sti gran c…”: vuoi essere corrisposto! Io dopo 23 anni sono ancora con Paolo – Paolo Galimberti, ndr – che per me rappresenta la razionalità, una persona profondamente costruttiva. C’è anche molto di Paolo in questo libro: lui fa l’imprenditore e tutti quei tecnicismi economici sono suoi. Glielo leggevo capitolo per capitolo e lui correggeva».
Sta per sposarsi. Nozze a Venezia come Jeff Bezos?
«Dobbiamo ancora decidere. Io amo la montagna, Paolo il mare, quindi dobbiamo trovare un campo neutro. Magari una bella collina del Prosecco…».
Lei è un melomane e un regista d’opera. Farà il «Trovatore» per la Fenice?
«Lo sto preparando per il teatro di Siviglia e di Tiblisi. La partnership prevedeva anche il teatro veneziano, ma dopo il caos scoppiato dopo la nomina di Beatrice Venezi non lo so più. Ho incontrato Colabianchi prima della nomina, ed era entusiasta dell’idea, poi non ho più sentito nessuno…».
Che cosa pensa di Venezi?
«L’ho ascoltata in un paio di occasioni e tutta questa mancanza di talento non l’ho colta: e io sono abbastanza sensibile alla buona e alla cattiva musica. Mi sembra una professionista molto seria. Certamente ha avuto un torto, che è forse quello di aver manifestato la sua ideologia politica, chiaramente rivolta alla destra: la politica non dovrebbe mai entrare nelle questioni di musica. Non mi è piaciuto, però, come si è mossa Venezia in questa circostanza: un sovrintendente deve comunque confrontarsi con la realtà del suo teatro, non è prudente prendere decisioni dall’alto».
È un assiduo della Prima della Scala. Vedrà «Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk» di Dmitrij Šostakovič il 7 dicembre?
«Cert ed è un’opera che stranamente conosco, perché amo pochissimo il Novecento, non sopporto la dodecafonia. Però c’è da dire che questa Lady Machbeth è veramente interessante, mi affascina molto il canto, che arriva all’anima, e sono curioso di capire come metteranno in scena lo stupro alla presenza del Presidente Mattarella».
Così colto e così amante del trash in televisione. Non c’è contrasto?
«Noi siamo fatti di tanti colori, io ho anche quel colore li: amo la vita, mi affascina conoscere tutto, io non guardo da lontano, voglio respirare il profumo, l’odore della realtà».
È pasoliniano?
«Assolutamente, la vita la voglio mordere, masticare, mangiare. Faccio “Il Grande Fratello” con lo stesso spirito della “Bohème”. Certo sono registri comunicativi diversi, ma accomunati dall’amore per la vita».
Il Grande Fratello Vip si farà?
«Vorrei saperlo anch’io! Abbiamo chiuso il cast, siamo molto soddisfatti, potrebbe dare grandi soddisfazioni. Deve essere approvato e vagliato dai dirigenti e dall’editore. Io l’ho preparato, bisogna vedere se piacerà».
E i radical chic?
«Chissenefrega, sono di una noia mortale. Viviamo in un Paese pieno di pregiudizi, me ne sono accorto quando ho cominciato a fare regie d’opera: si meravigliavano che sapessi suonare il pianoforte».
Pippo Baudo?
«Era uno zio. È stato grazie a lui che ho debuttato in televisione».
E Ornella Vanoni?
«Rappresenta la vecchiaia più giovane che esista. Ci ha insegnato come vivere la stagione della vita che è l’ultimo dei tabù. I vecchi oggi non trovano spazio nei grandi canali di comunicazione, li si rinchiude nelle rsa, nelle famiglie, non hanno voce. Uno dei sogni della mia vita è fare un programma sui vecchi e chiamarli proprio così: vecchi».
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30 novembre 2025 ( modifica il 30 novembre 2025 | 10:16)
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