di
Alessandra Arachi e Emilia Costantini

Il figlio dello storico direttore della Rai: «Il successo del mio Sandokan? Un omaggio alla sua intuizione. Desidero continuare la sua tv, per questo ho deciso di riportare la Tigre di Mompracem sul piccolo schermo»

Quando risponde alla prima domanda lo chiama Ettore, come se non fosse superfluo ricordare il nome di suo padre, l’uomo che ha inventato la Rai. Lo farà solo una volta. «Il mio desiderio è di continuare la tv di Ettore Bernabei, per questo ho deciso di riportare Sandokan sul piccolo schermo, a metà degli anni Settanta fu sua l’idea dello sceneggiato sulla Tigre di Mompracem», dice Luca che di Ettore è il più piccolo di otto figli, oggi diventati sette, Paola che era una giornalista non c’è più.
La prima puntata di Sandokan, andata in onda lunedì su Rai1, ha sbancato l’Auditel con il 33,9%, come le tante serie tv che Luca Bernabei ha prodotto in trent’anni.

All’epoca di suo padre Ettore, Sandokan incollò gli italiani alla tv e lo sguardo di Kabir Bedi illuminò lo schermo neanche fosse stato un neon. Oggi che significato ha riproporlo?
«Uso una parola che non amo ma che spiega tutto: escapismo. Vuol dire aver voglia di scappare via. Oggi è questo il sentimento generale, Sandokan lo interpreta alla perfezione».



















































Perché dice questo?
«È una storia che ci fa tornare bambini, fa ridere e sorridere. Ce n’è per tutti. Ci sono le spade, ma anche una grande storia d’amore: Sandokan è un pirata che non sa di essere un principe e Marianna è una nobile inglese che fugge con un pirata. Una storia scandalosa, se vogliamo. All’epoca di mio padre era rimasta in secondo piano, in questa serie di otto episodi è esplosiva».

Desidera continuare la tv di suo padre, ha appena detto.
«Ci provo, indegnamente. Lui diceva che la sua missione era mandare a letto gli italiani tranquilli. Adesso questo non è facile».

Quindi?
«Mio padre faceva una tv creazionista ed è questa che vorrei fare. Una tv non ideologica ma etica».

Qual è l’etica della sua tv?
«Bisogna mettere in chiaro che c’è il bene e c’è il male. È importante far capire che si può scegliere. E che nessuno giudica quelle scelte».

Cosa ha comportato essere figlio di Ettore Bernabei?
«Mangiare sempre molto tardi la sera? ».

Sia serio.
«Scherzo, ma non troppo. Babbo non tollerava che non si stesse a tavola sempre tutti insieme. Ma lui faceva sempre tardi, sia a pranzo sia a cena. E noi otto fratelli dovevamo combattere la fame per aspettarlo. La sera tornava dal lavoro ben dopo il Tg. Curava la sua Rai nei minimi dettagli. Sedeva anche in regia e in moviola. Curava la sua vita, nei dettagli. E la tavola per lui era famiglia».

Lei cosa capiva in casa di quel babbo tanto importante?
«Quando ero piccolo ben poco. Mio padre non ha mai detto una parola di quello che riguardava il suo lavoro. Poi sono diventato grande e lui da anziano qualcosa ha cominciato a raccontare».

Per esempio?
«Ci rivelò quello che gli aveva detto la moglie di Moro in un incontro durante i giorni del rapimento».

Ovvero?
«In quei giorni orribili il babbo si era adoperato nel tentare di mediare tra le varie anime: Cossiga e Andreotti da una parte non volevano trattare con i brigatisti, a differenza di Fanfani e Craxi. Andò a trovare Eleonora Moro che aveva la stessa integrità e la stessa forza del marito. Lei gli disse: “Bernabei non si dia pena, la sentenza di morte di mio marito è già stata emessa. Ma non in Italia”».

Quella di suo padre è stata una carriera tutta dentro la Dc.
«Grazie a Fanfani, sì. Fu il sindaco di Firenze il sindaco santo Giorgio La Pira a presentarglielo. Quando mio padre era direttore della Nazione Fanfani lo chiamò a dirigere il Popolo, allora potentissimo organo della potentissima Dc».

E da lì passò alla potentissima Rai.
«Fu ancora grazie a Fanfani. Gli scrisse una lettera che conservo: “Io ho fatto il mio dovere facendola direttore della Rai. Ora faccia Ella il suo facendo il direttore di tutti gli italiani”».

E suo padre lo fece il suo dovere secondo lei?
«Non l’ho mai visto né mai sentito fare qualcosa per il suo tornaconto. Si adoperava per il bene comune e usava la televisione per fare questo».

Si parla ancora della «Rai di Bernabei».
«Mio padre ha portato in televisione i più bravi registi di cinema. Non dimentichiamo il “Gesù” di Zeffirelli. O quel capolavoro che è “Prova d’orchestra” di Fellini. Ha portato anche la trasgressione».

Trasgressione?
«Mi dispiace tantissimo quando sento dire che mio padre era un bacchettone. Non è vero. Gli piaceva la vita. Era passionale, capace di gustarsi le persone anche a tavola, tra buon vino e ottimo cibo. Gli piacevano tantissimo anche le donne. È stato lui a portare in tv le gemelle Kessler. La trasgressione possibile».

La «trasgressione possibile»?
«La trasgressione democristiana. Il concetto è: tu non devi tradire tua moglie, ma noi ti facciamo sognare con centoventi centimetri di gambe».

Hanno sognato in tanti sulle gambe delle Kessler.
«Eh sì».

Si può ancora sognare?
«I sogni ce li hanno tolti. Dobbiamo riprenderceli».

Ha qualche idea? Lei ha cambiato vita, ha fondato una nuova casa di produzione dopo aver lasciato la Lux Vide, la storica casa di produzione fondata da suo padre Ettore e da sua sorella Matilde. Una voglia di rinnovamento?
«Un rinnovamento nella continuità».

Progetti?
«Diversi. Ne cito uno, a proposito di sogni. Stiamo sviluppando una serie di otto puntate: “Onde libere”. La storia di tre ragazzi molto diversi tra loro, due maschi e una femmina che fondano una radio libera. Siamo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, un momento magico, irripetibile. Era finita l’epoca buia del terrorismo, si ricominciava a sognare. Erano le radio libere che regalavano sogni e libertà. Il progetto è in mano a due sceneggiatori bravissimi: Giorgio Nerone e Sara Musetti».

Altro in preparazione?
«”Golden Touch”, una serie che parla di una famiglia di imprenditori nel campo delle pietre preziose, sul lago di Como. Il capofamiglia si ammala all’improvviso. I suoi figli sono sparsi per il mondo, quasi estranei tra loro. Per salvare l’azienda sono costretti a tornare a casa. A stare insieme. A riscoprirsi. Una volta tanto la famiglia non esplode ma implode. Gli sceneggiatori sono Camilla Buizza e Andrea Bassi».

Come si chiama la sua casa di produzione?
«Ohana».

Che nome è?
«In hawaiano vuol dire famiglia. Vorrei che Ohana diventasse una famiglia per tutti. Per gli spettatori. E per i miei collaboratori».

Sono sempre numerose le sue famiglie. Lei e sua moglie Paola avete sei figli, lei è l’ultimo di otto fratelli.
«Il più grande dei miei fratelli è Marco, psicanalista. Poi Roberto, medico. Con Matilde abbiamo lavorato venticinque anni accanto al babbo in Lux, con noi anche Gianni. Laura vive in Francia, Andrea è avvocato. Mio padre è stato un grande capofamiglia».

Litigavate mai lei e suo padre?
«Altroché. Babbo era un toscanaccio molto passionale. Se facevo qualcosa di sbagliato perdeva le staffe. Una volta mi rimproverò urlando: arrivò a giudicare troppo violente alcune scene di Don Matteo».

Ha continuato a volervi tutti attorno a un tavolo?
«Sempre.Cominciava a chiamarci il mercoledì per il pranzo della domenica. Figli, nipoti, nuore, generi. Mio padre l’affetto lo esternava attraverso il cibo. Il primo abbraccio della mia vita me lo ha dato quando è morta mia madre ed è scoppiato a piangere. Non ero pronto all’abbraccio e nemmeno al pianto. Non lo avevo mai visto piangere. Lui aveva 92 anni, io 49».

A che età è morto Ettore Bernabei?
«Aveva 95 anni. È morto felice. Seduto a tavola».

2 dicembre 2025 ( modifica il 2 dicembre 2025 | 21:25)