di
Gaia Piccardi

Marco Pietrangeli: «Più che un padre tradizionale, è stato un amico. In casa c’era poco, il lavoro lo portava sempre via. La sua eredità andrebbe trasmessa alle nuove generazioni»

«Più che un padre tradizionale, è stato un amico. In casa c’era poco, il lavoro lo portava sempre via: prima tennista, poi ministro degli esteri della Federtennis italiana agli eventi più importanti del calendario. Da piccolo lo vedevo come un giramondo: tornava sempre con una storia divertente da raccontare a noi figli. Ma quando si fermava a Roma, era presente. E con lui si facevano cose divertentissime».

Marco Pietrangeli è il primogenito di Nicola, scomparso lunedì mattina a 92 anni, e di Susanna Artero, l’unica moglie che il campione abbia avuto. Ha gli stessi occhi del padre, e una bella barba bianca sotto la quale nascondere il senso di vuoto lasciato da un gigante del nostro sport. I ricordi sono vivi, lo saranno per sempre.



















































Per quali avventure partiva con Nicola, da bambino?
«Abbiamo giocato a calcio, a golf, siamo andati a cena insieme, e non erano mai cene banali. A turno, comparivano i personaggi che popolavano la sua esistenza: da Virna Lisi che per noi era una figura parentale, la chiamavamo zia Virna, a Bice Valori, Paolo Panelli, Renato Salvatori, Delia Scala. E Marcello Mastroianni, con cui abbiamo fatto mille vacanze e gite in barca a Castiglioncello. Quando ero già grande ho conosciuto anche Rod Laver, uno dei suoi mitici avversari».

Sul green era forte come con la racchetta?
«Era discreto, in quanto autodidatta. Ma non ho dubbi che a Tiger Woods avrebbe avuto il coraggio di dire qualcosa di simile a ciò che disse a Rivera: sei fortunato che io non abbia giocato a calcio, sennò…».

La sua eredità è questa libertà di esprimersi, a costo di essere ruvido (ma sempre con gentilezza)?
«La sua eredità è la stessa che hanno lasciato Sirola e Merlo, e che lasceranno i ragazzi del ‘76: gente che ha permesso al nostro tennis di vivere l’era d’oro attuale, ottenendo questi risultati. Andrebbe trasmessa alle nuove generazioni».

A proposito di nuove generazioni: le spiace che tra Nicola e Jannik Sinner non sia mai scattata la scintilla?
«Non conosco Sinner, non so cosa pensi di mio padre. Ma il ragazzo è sveglio e intelligente, avrà fatto le sue valutazioni. Ognuno vive il lutto a modo suo».

Quale era la grande dote di Pietrangeli, l’empatia?
«La grande simpatia, la brillantezza, la capacità di saper parlare allo stesso modo con tutti: dal principe Ranieri di Monaco al posteggiatore. Non era colto ma sapeva esprimersi in cinque lingue. Il suo modo di fare con le persone era ammaliante: piaceva a tutti. Naturalmente anche alle donne».

Se n’è andato come voleva?
«Due domeniche fa aveva visto l’Italia vincere la Coppa Davis per la terza volta consecutiva: non era più la sua Davis, ma si era commosso. Gli ultimi giorni sono stati complicati: era sempre lucido, ci vedeva benissimo, non è vero che aveva perso la vista. Fino a sabato ha avuto visite a casa, domenica c’è stato un peggioramento. Si è stufato, credo. Diceva: sono stanco di essere stanco. E c’è molto di Nicola Pietrangeli in questa frase».

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La camera ardente sul campo del Foro Italico, che porta il suo nome, era un suo espresso desiderio.
«Con la fondamentale collaborazione della Federtennis di Angelo Binaghi, che era molto affezionato a papà, abbiamo cercato di avvicinarci il più possibile a ciò che aveva chiesto. La messa sul campo da tennis non si poteva fare: sarà nella chiesa di Ponte Milvio, poco lontano. Arriveranno persone da tutto il mondo. Non mi stupirei se si affacciasse anche il presidente Mattarella».

E dopo la Santa Messa esequiale?
«Saluteremo papà, e si chiuderà definitivamente un’epoca».

Procacci, regista di «Una Squadra», ha raccontato che la casa di Nicola era un set.
«Ai cimeli della sua carriera era molto attaccato».

Che fine faranno?
«Questa è una bella domanda, alla quale oggi non so ancora rispondere. Ne parleremo con Binaghi: forse un angolo, una stanza nel locali della Federazione potrebbe ospitarli. È un’idea ancora acerba, ne riparleremo».

A cosa era più legato?

«Alle due coppette del Roland Garros e a quella del torneo di Montecarlo: dopo averlo vinto per la terza volta, di cui due consecutive, nel ‘68, gli avevano sostituito la replica con il trofeo definitivo».

Il dolore più grande è stato la scomparsa di Giorgio, suo fratello, lo scorso luglio?
«La morte di un figlio è un lutto da cui non ci si riprende più. Quando gli abbiamo dato la notizia, papà era ricoverato al Gemelli, qui a Roma. Disse: Giorgio ha smesso di soffrire, finalmente. Poi non ne ha quasi più parlato».

Se li immagina, Marco, Nicola Pietrangeli e Lea Pericoli seduti su una nuvola, che guardano giù?
«Se ritroverà Lea mi farà piacere. Ma, ovunque siano, credo saranno una moltitudine. Tutti gli amici di papà».

3 dicembre 2025 ( modifica il 3 dicembre 2025 | 08:10)