Non aiuta il genere. C’è una specie di inflazione di uscite doom/stoner che, a volte, a dover distinguere la pula dal grano viene voglia di rinunciare al raccolto. Non aiuta neppure il nome scelto dagli scozzesi, King Witch, che anche per via dell’inflazione di cui sopra, dà l’effetto di una scelta casuale di due delle parole più gettonate per una band doom metal, tutte scritte ciascuna su un differente cartoncino e messe dentro ad un cappello. E quindi niente, mi ci è voluto quasi un mese prima di dedicare le giuste attenzioni a III, terzo album dei King Witch. E anche il titolo dell’album, diciamo, non solletica di suo chissà che curiosità. Beh, errore mio, perché i King Witch non sono proprio un nome tra tanti, nella mischia. E l’album infila una sequenza di pezzoni da gente seria, che sa il fatto suo. Pezzoni heavy doom compiuti, tosti. Maschi, verrebbe da dire, anche se le danze le guida una bravissima Laura Donnelly. Bravissima, davvero, dal tono potente, sicuro. La differenza tra i King Witch e la concorrenza la fa anche e soprattutto lei. Non aspettatevi streghette accattivanti, ninfe seducenti o altre pantomime in auge su lidi simili. La Donnelly canta potente senza maschera, senza personaggio. Canta veramente, canta bene, sia nei passaggi doom lenti, sia quando è il caso di strillare, di strillare per davvero (e lo fa, eccome se lo fa). Un’interpretazione epica e non da cartolina, con bei passaggi blues e grunge.
Già, il grunge, parolaccia, i King Witch quella carta sanno giocarsela, in certe armonie di chitarra, nei profumi. Parliamo di Soundgarden e Alice In Chains, ma tranquilli che non c’è nessun atteggiamento autoindulgente o autocommiserante. I King Witch sono duri, sono pietre e anche se a tratti ingentiliscono la materia, il loro doom resta roccioso, ancestrale, asciutto. E qui sarebbe il punto giusto per inserire un elogio alle belle chitarre (riff, assoli, tutto) di Jamie Gilchrist, l’altra anima del gruppo che include nella line up ufficiale anche un bassista, Rory Lee.
Ora, l’inquadramento più o meno lo abbiamo dato. Resta da godersi i pezzi. I primi tre sono una sequenza riuscita per davvero, con lo scapoccio di Suffer in Life (dedicata a quelli a cui i Goatsnake mancano non poco), con la lenta e paludosa Deal With the Devil (ed è qui che certa Seattle si fa sentire, ma paradossalmente anche certa New Orleans) e con Swarming Flies, il singolo (scelta giustissima), altro pezzone dalla melodia riuscita e dagli sviluppi avvincenti. Ho citato un po’ di riferimenti eterogenei, ma a guardar bene tutto, ma proprio tutto, proviene dai primi Black Sabbath. Bene: i King Witch di base oscillano tra due stili, il doom epico di scuola svedese (eh, sì, c’è anche quello) e soprattutto quello caldo, blues e redneck di scuola americana. Ma il bello è che hanno le canzoni, le formano attingendo, come dicevo, da altre scuole, ma confezionando un album dotato di coerenza e nessuno sbandamento. E ok, non sarà un album da superlativi assoluti, ma di sicuro nemmeno uno di quei dischi da dimenticarsi dopo due ascolti. Uno di quelli che non ti viene voglia di testarne le canzoni dal vivo. Viva il Re. (Lorenzo Centini)