Parla l’ex allenatore di Roma ed Empoli: “Per colpa di quella finale persa mi diedero del laziale. Fu un periodo brutto, i fischi della sud mi hanno fatto male”
Lorenzo Cascini
6 dicembre – 08:00 – MILANO
Si dice che nel calcio la felicità si misuri in centimetri. Quelli che separano un palo da un gol, per esempio. Lo sa bene Aurelio Andreazzoli, ex allenatore che nella vita è stato tantissime cose, ma che a Roma per anni è stato considerato solo ‘quello della finale persa’. “Mi diedero dell’inadeguato, qualcuno anche del laziale. Fu un periodo brutto, i fischi della sud mi hanno fatto male”. Era il 26 maggio 2013, la squadra di Petkovic vinse uno a zero il derby in finale di Coppa Italia. “Una brutta macchia, indelebile per i tifosi. Cancellò tutto il lavoro fatto fino a quel momento, che era stato molto buono. Non se lo ricorda nessuno, però”. In fondo, si sa, il mondo del pallone è un paesone in cui ogni parere diventa una sentenza: si tende a giudicare tutto e a farlo subito. “Mi interessa solo il parere di chi mi ha vissuto. Negli ultimi tempi a Empoli mi chiamavano ‘nonno’. Spero di aver lasciato qualcosa ai ragazzi che ho allenato. La vera sfida è riuscire a trasmettere al gruppo il tuo pensiero, i tuoi valori”.
Andreazzoli, la finale persa con la Lazio nel 2013 resta una ferita aperta. Si è sentito abbandonato dopo la sconfitta?
“L’allenatore in questo è un uomo solo. Perde la squadra, ma il giudizio ricade su chi era in panchina. Credo che quella partita l’abbiano persa più Totti, De Rossi & Co. Non Andreazzoli. O per lo meno, non soltanto”.
Roma poi è una piazza particolare…
“Credo manchi l’oggettività nel pesare il lavoro. E gli elogi sono peggio delle critiche. Vinci due partite e ti stendono i tappeti rossi: ti invitano a cena, ti chiama il politico, perdi la misura. Ci hanno provato anche con me, non mi sono mai fatto coinvolgere. Poi perdi e improvvisamente vali zero”.
L’anno dopo lei scelse di restare nello staff di Rudi Garcia. Alla presentazione della squadra fu il primo ad uscire, ricoperto dai fischi.
“Mi hanno fatto male. Anche perché fischiavano solo me, come fossi l’unico colpevole. Me li sono presi a testa alta, sono passato oltre. Ma è incredibile pensare quanto ci si dimentichi in fretta del lavoro fatto in precedenza. Era stato buono, una media di 1,8 punti a partita e nessuno se lo ricorda”.
Le diedero anche del laziale…
“Ci fu una polemica con Osvaldo, che fece un po’ troppo il furbetto. Se ne uscì con un’esternazione infelice, diciamo così. Ma non era l’unica”.
“No, parlo in generale. Ricordo quando a Genova con la Samp si prese la responsabilità di battere un rigore, prendendo da solo il pallone. Totti era basito. E lo sbagliò pure…”.
Lulic segnò, sfruttando una mezza papera di Lobont, Totti invece prese la traversa. Si è mai chiesto come sarebbe andata se…?
“So che sarei stato riconfermato e avrei avuto la possibilità di giocarmi le mie chance, ma non ci penso più. Sono felice del percorso fatto”.
La ricordano anche per la finta di Taddei, che si chiama come lei.
“Invitavo Rodrigo a provarla. Lo stuzzicavo. In allenamento aveva colpi fantastici, doveva solo vincere la timidezza e provarli anche in partita. Mi dedicò quella finta pazzesca, ma io non c’entro niente in realtà”.
A Roma ha fatto il collaboratore per dieci anni. Togliendo Spalletti, con cui ha condiviso anche Udine, chi le è rimasto più impresso tra gli allenatori con cui ha lavorato?
“Luis Enrique, una persona stupenda. Mi ha insegnato a tenere sempre la schiena dritta: lasciò un contratto per andare a studiare calcio. È un uomo incredibile quando parla alla mamma di sua figlia Xana, quando parla ai ragazzi in spogliatoio, per l’umanità e il rispetto con cui tratta tutti. Lo vorrei abbracciare e mi piacerebbe molto andarlo a trovare a Parigi”.
Lo spagnolo è anche un grande appassionato di ciclismo, come lei d’altronde. Siete mai usciti insieme a pedalare?
“Altroché. Dopo aver annunciato alla squadra che avrebbe lasciato l’incarico, andammo a pedalare al parco del Veio. Io avevo comprato un faro nuovo e mi sentivo molto soddisfatto del mio acquisto… lui iniziò a pedalare e mi accorsi che ne aveva uno molto più potente. Scappiamo a ridere quando glielo raccontai. Due giorni dopo mi arrivò quello stesso faro a casa. Lo uso ancora. È un gesto semplice che descrive che persona è Luis”.
Dopo l’ultima esperienza da collaboratore di Spalletti, arrivò la chiamata di Corsi per allenare l’Empoli.
“Quasi mi disturbò… stavo in bicicletta. Però mi piaceva l’idea di poter applicare in Serie A quello che facevo nei dilettanti. È stata una fortuna. A Empoli ho passato anni bellissimi”.
La chiamavano ‘Nonno’. Colpa di Bennacer?
“Non mi ricordo come nacque. Bennacer prima di andare al Milan mi mandò un messaggio molto bello chiamandomi così, non so se era la prima volta. L’ho sempre trovato un soprannome carino. Sono un buono e credo di aver aiutato tanti ragazzi a crescere. Asllani, Ricci, Baldanzi e compagnia”.
A trovarla a Empoli venne anche Conte.
“Partì da Torino alle sei di mattina, per evitare il traffico del primo maggio. Rimase tre giorni con noi, pranzando con la squadra come fosse uno dello staff. Ci eravamo già incontrati a Coverciano: lui aveva preso una stanza e mi aveva invitato a fare due chiacchiere. Io, lui e i nostri figli. Condividemmo schemi, idee e valori”.
Oggi è passato un anno e mezzo dalla sua ultima esperienza in panchina. Tornerebbe nel calcio?
“Sì, per portare la mia visione. Quello che vedo oggi non mi piace, è noioso. Piuttosto che guardare la Serie A, metto il rugby. Nel calcio, ormai, al minimo tocco si va per terra. Lo trovo un mondo fatto di cattive abitudini e modi di fare diseducativi”.
“Tanti. Non mi pento di nulla, però. Ho allenato in tutte le categorie – tranne la terza – e non penso sia un caso. Ho scelto di non legarmi a nessuno, di non accettare favori o scorciatoie. Sono fiero della gavetta e degli anni passati nei dilettanti. I principi che avevo allora sono gli stessi di adesso, che sia Eccellenza o Serie A”.
Dicevano di lei che era troppo buono.
“Mah, chi lo diceva? Evidentemente qualcuno che non mi conosce. Non sono uno showman, quello no. Ho preso una sola ammonizione in carriera, quando allenavo la Massese trent’anni fa, e promisi a me stesso che non ne avrei mai più presa una. L’ho mantenuta”.
Qualcuno nel calcio l’ha delusa?
“Molte persone. Ma non lo voglio dire qui, preferisco prima farglielo sapere di persona. Non sono uno che si nasconde”.
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