di
Ginevra Barbetti
Già frontman degli Spandau Ballet e oggi protagonista di una longeva carriera solista, ha saputo reinventarsi con disinvoltura, passando dall’elettronica ai groove del funky fino al pop epico
Nonostante il tempo e le trasformazioni del pop, a 45 anni dal debutto, Tony Hadley resta un interprete raro: il suo timbro, a metà tra lirismo e graffio, lo distingue ancora nettamente sulla scena britannica. Già frontman degli Spandau Ballet e oggi protagonista di una longeva carriera solista, ha saputo reinventarsi con disinvoltura, passando dall’elettronica ai groove del funky, fino al pop epico che lo ha consacrato come uno dei protagonisti assoluti del movimento New Romantic.
Il tour celebrativo «Tony Hadley 45» toccherà le tappe più significative del suo repertorio — da True e Gold, brani simbolo degli anni 80, alle ballate dense di significato come Through the Barricades — e il 27 agosto arriverà al Festival La Versiliana a Marina di Pietrasanta accompagnato dalla sua Fabulous TH Band.
Nell’album «The Mood I’m In» celebra i grandi classici americani: in che modo li ha riletti?
«Lo swing è parte di me. Da bambino, la domenica mattina a casa dei miei genitori, si ascoltavano dischi di Frank Sinatra, Tony Bennett, Nina Simone. È lì che ho scoperto il valore e il fascino del canto interpretativo. L’insegnante che avevo in quegli anni ripeteva che la mia voce doveva rimanere “naturale”, senza forzature. Ho rispettato quei brani, dando loro la mia interpretazione vocale, con sensibilità. È stato un omaggio sincero e personale a certe radici musicali che non ho mai dimenticato».
Ieri analogico, oggi digitale. Dei successi che nascono in un click e svaniscono presto, che ne pensa?
«Siamo in un’epoca di sovrapproduzione, con canzoni che escono ogni giorno e finiscono per durare pochissimo. Negli anni 80, ogni uscita discografica era un evento, gli artisti avevano una forte riconoscibilità. Oggi i suoni e le voci si somigliano, è tutto veloce, si rischia di perdere profondità. Il lato positivo? Con le piattaforme digitali puoi raggiungere il mondo intero, anche se emergere davvero difficile. In Inghilterra, per esempio, mancano i locali in cui le giovani band possono suonare per farsi conoscere, ed è un peccato».
Perché gli anni 80 continuano a essere d’ispirazione?
«Sono stati un decennio di enorme creatività: nella musica, nella moda, nell’attitudine. Ogni artista aveva una sua identità definita: li riconoscevi a occhi chiusi, sentendo la voce. Noi Spandau, come i Duran, i Culture Club o gli Human League, avevamo tutti uno stile unico. E la moda era parte integrante di quel linguaggio: potrei citare i nostri abiti ispirati al Blitz Club… Quell’epoca aveva carattere, visione, teatralità. Difficile da replicare oggi».
«Tony Hadley 45», cosa racconta?
«Tutto: l’amore per la musica e quello che mi ha dato in questa lunga carriera. In 45 anni ho vissuto esperienze incredibili: dagli inizi con gli Spandau Ballet al Live Aid, dai tour mondiali alla carriera solista. Ho fatto musical a teatro, dischi swing, pop, collaborazioni internazionali… tutto è parte di ciò che sono oggi».
Quali brani sente più suoi?
«Sicuramente Through the Barricades, ispirata al conflitto nordirlandese, col suo messaggio universale: l’amore può superare ogni barriera. La canto ogni volta con grande emozione, e il pubblico la sente come un inno alla speranza. Ma anche True e Gold hanno preso un significato nuovo col tempo: non solo brani simbolo degli anni 80, ma parte della vita delle persone. Oggi le interpreto con maggiore consapevolezza, come se raccontassi una storia condivisa».
Com’è passato dall’electro-pop di «To Cut a Long Story Short» al suono più orchestrale di «True»?
«Eravamo influenzati dalla scena elettronica europea, i Kraftwerk, i Visage, il sound berlinese. To Cut a Long Story Short ne è un esempio perfetto. Ma ascoltavamo anche soul, funk… e naturalmente David Bowie, che ci ha insegnato l’importanza del reinventarsi. Quando siamo arrivati a True, avevamo bisogno di raccontare qualcosa di più emotivo e melodico, e l’orchestrazione ci ha permesso di farlo. È stato un passaggio naturale di crescita ed esplorazione».
In che modo si è evoluto il suo rapporto col pubblico?
«Oggi è più diretto, grazie all’immediatezza dei social. Bello, sì, ma devi stare sempre “acceso”. Negli anni 80 era tutto più distante, per questo anche “mitico”. Ora i fan ti conoscono meglio, ti seguono ovunque, spesso ti sorprendono con messaggi profondi. Ma nulla batte il concerto dal vivo: lì si crea una connessione vera, fisica, emozionale».
Il distacco dagli Spandau Ballet quali opportunità ha portato?
«Di riscoprirmi come artista. Per anni ho fatto parte di un progetto collettivo, ma dopo la separazione ho potuto concentrarmi sulla mia musica, sulle mie passioni, senza compromessi. Ho iniziato a lavorare con la mia Fabulous TH Band, pubblicato dischi swing, esplorando sonorità che mi rappresentano davvero. È stato un modo per liberarmi da alcune dinamiche pesanti e tornare a godermi la musica per ciò che è con gratitudine. E finché avrò voce, canterò».
Disse che «avevano hanno superato il limite»: ci racconta di più?
«Le cose con la band erano diventate troppo complicate. Lasciarla è stata una scelta difficile, ma necessaria. Per restare fedele a me stesso, dovevo chiudere quel capitolo. I rapporti si erano logorati, continuare sarebbe stato impossibile, c’erano divergenze troppo profonde. Così ho deciso di lasciare per proteggere la mia serenità. Loro hanno continuato con un altro cantante, e va bene così. Ma capisco che il pubblico abbia un legame emotivo fortissimo con la formazione originale».
Quanto c’era di vero nella rivalità coi Duran Duran?
«Era tutta costruita dai media. Ci piacevamo, ci rispettavamo, e con Simon Le Bon siamo sempre andati d’accordo. Abbiamo condiviso festival, programmi tv, anche un indimenticabile Sanremo dove eravamo entrambi ospiti. I giornalisti ci volevano nemici, ma la verità è che eravamo due band forti, diverse, con un grande seguito. Quante volte siamo andati a berci una birra insieme…».
Salutiamoci con un sogno da realizzare.
«Mi piacerebbe recitare in un film di James Bond. L’eleganza, l’azione, la musica: sono un grande fan. E in effetti sto lavorando a un singolo che ha proprio quelle atmosfere un po’ cinematografiche, alla 007. Poi ci sono due nuovi album in arrivo: uno swing e uno pop, più contemporaneo ma sempre con la mia impronta. Chiudo con un sogno già realizzato, sono appena diventato nonno. Che esperienza incredibile: ogni nota al posto giusto, come in una partitura perfetta».
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2 agosto 2025
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