“La scienza è la topografia dell’ignoranza”
— Oliver Wendell Holmes Sr.
Ogni scienziato lo sa: più si studia, più aumenta la consapevolezza dei propri limiti.
La scienza non è un deposito di verità statiche, ma un processo dinamico e autocorrettivo. È la mappa provvisoria di ciò che ancora non conosciamo. In un’epoca che si professa scientifica, la scienza medica viene spesso presentata come un corpus di certezze indiscutibili. Ciò è tanto più evidente nei momenti di crisi, quando la complessità dell’esperienza umana viene ridotta a slogan, a protocolli e modelli predittivi.
La narrazione storica come strumento di potere
Prendiamo il caso del vaiolo. È opinione diffusa che la sua eradicazione sia dovuta unicamente alla vaccinazione di massa. Eppure, la diminuzione della letalità del vaiolo aveva preceduto di decenni l’introduzione della vaccinazione sistematica, coincidendo con i cambiamenti ambientali, i miglioramenti delle condizioni igieniche e la riduzione dei deficit nutrizionali.
Anche in questo caso, la memoria storica è selettiva, e tende a costruire una narrazione lineare e rassicurante:
malattia → vaccino → salvezza.
Tale schema, sebbene comodo, trascura le variabili storiche, ambientali e sociali che concorrono all’evoluzione di una patologia. E soprattutto, alimenta l’idea di una medicina-eroina, trionfale e trionfatrice, che vince sempre e comunque, grazie al progresso tecnologico. La storia della medicina non è un cammino lineare di progressi inarrestabili. È, piuttosto, un intreccio di scoperte e fallimenti, intuizioni geniali e errori tragici. È anche la storia di farmaci e interventi accolti con entusiasmo, sostenuti da studi e raccomandazioni ufficiali, che solo in seguito si sono rivelati inefficaci, pericolosi o persino fatali.
La talidomide (1950–1960): promossa inizialmente come farmaco sicuro contro le nausee in gravidanza, fu prescritta a decine di migliaia di donne. Il risultato fu una catastrofe sanitaria globale: oltre 10.000 bambini nati con gravi malformazioni agli arti (focomelia) e ad altri organi. Il farmaco venne ritirato solo dopo anni e dopo che le prove dei danni erano diventate innegabili. Oggi è un caso di scuola, ma all’epoca rappresentava “la scienza”.
L’incidente di Cutter (1955): durante una delle prime campagne di vaccinazione antipolio negli Stati Uniti, il laboratorio Cutter distribuì un lotto di vaccini Salk contenente virus non completamente inattivati. Risultato: migliaia di bambini contrassero la poliomielite, moltissimi rimasero paralizzati, molti morirono. Un errore di produzione in un contesto di euforia collettiva, un promemoria permanente del fatto che nessuna tecnologia è infallibile, nemmeno se approvata in emergenza. Vi ricorda qualcosa di recente?
Il caso Vioxx (rofecoxib, 1999–2004): antinfiammatorio della Merck, venduto come farmaco innovativo per dolori cronici e artrite, fu ritirato dal mercato dopo 5 anni per un aumento significativo del rischio di infarto e ictus: si stima che abbia causato tra 60.000 e 100.000 morti premature solo negli Stati Uniti. Eppure, gli effetti avversi erano noti già dai primi trial, ma furono minimizzati o taciuti. Il farmaco era stato approvato da FDA e venduto in tutto il mondo. Una vicenda che rivela il peso dei conflitti d’interesse e dei bias sistemici nella regolazione farmaceutica.
Metoclopramide: il Plasil, comunemente usato come antiemetico, è stato per decenni considerato sicuro anche in età pediatrica. Solo negli ultimi anni è stato ridimensionato l’uso in molti Paesi, a causa del rischio significativo di effetti extrapiramidali, come discinesie, spasmi facciali e crisi distoniche, soprattutto nei bambini. L’AIFA e l’EMA hanno oggi limitato l’uso del farmaco, raccomandando di non superare i 5 giorni di terapia e di evitare l’uso nei più piccoli. Un esempio di ritrattazione tardiva, dopo decenni di prescrizione diffusa.
Questi esempi non dimostrano che la medicina sia inutile o dannosa. Dimostrano che la medicina è fallibile. Che il consenso scientifico non è garanzia di verità assoluta. Che solo la vigilanza critica, la trasparenza e la partecipazione informata dei cittadini possono prevenire nuovi errori.
Dalla medicina che cura alla medicina che medicalizza
Come scriveva Ivan Illich: “Nessuna istituzione è capace di infliggere sofferenze tanto profonde quanto quella che pretende di lenirle”. In questa frase tagliente e profonda, Ivan Illich coglie una delle verità più scomode della modernità: la potenziale ambivalenza delle istituzioni sanitarie. Chi nasce con lo scopo di prendersi cura della sofferenza può diventare, paradossalmente, il principale responsabile della sua perpetuazione o aggravamento. Non per cattiva volontà, ma per meccanismi sistemici, ideologici e culturali che sfuggono al controllo del singolo. Nel suo celebre libro Nemesi medica (1975), Illich denunciava il fenomeno della iatrogenesi: la produzione di malattia da parte della stessa medicina che si propone di curarla. La iatrogenesi può essere:
- clinica (quando trattamenti, farmaci o interventi causano danni),
- sociale (quando si sottrae alla comunità la capacità di prendersi cura di sé),
- strutturale (quando la medicina diventa strumento di controllo, esclusione, sottomissione).
Secondo Illich, il pericolo maggiore non sta nei singoli errori medici, ma nella trasformazione della medicina in apparato ideologico, che pervade e permea la vita quotidiana, impone standard di salute, genera dipendenza tecnologica, delega la responsabilità individuale a un sapere specialistico autoritario.
La medicina moderna ha assunto, specialmente nel periodo COVID, una funzione quasi sacerdotale, stabilendo cos’è giusto, cos’è normale, cos’è deviante.
Decide chi è sano, chi è malato, chi deve essere trattato e con quali mezzi. In nome della salute pubblica si continuano ad imporre norme, a restringere libertà, a giustificare interventi obbligatori- la legge Lorenzin è l’esempio più eclatante.
Il potere terapeutico, quando si istituzionalizza e si allea con l’apparato politico-amministrativo, diventa strumento di coercizione e di omologazione. È accaduto in modo sfacciato durante la pandemia, ma è visibile ogni giorno nei protocolli standardizzati, nella burocrazia clinica, nell’abuso diagnostico, nelle vaccinazioni obbligatorie senza dissenso, che ignorano la variabilità individuale e sociale, nell’eccesso di screening e medicalizzazione della vita quotidiana, che produce ansia, etichette, interventi inutili. Ivan Illich ci ha insegnato che la cura non è compatibile con la coercizione, che la salute non si impone, e che ogni apparato che pretende di tutelare la vita può trasformarsi in un meccanismo di violenza, quando perde il contatto con la persona, con la comunità, con la libertà. Rileggetelo, per ricordare che la scienza è uno strumento umano, e come ogni strumento può essere usato per liberare o per sottomettere. Dipende da noi, da quanto siamo disposti a pensare, a dubitare, a scegliere.
“La medicina può essere cura solo se lascia spazio alla libertà.” – questo, probabilmente, avrebbe detto Illich nel cuore della pandemia.
Abitare la complessità: contro l’illusione delle soluzioni semplici
La medicina moderna, ispirata al paradigma meccanicistico, ha ottenuto risultati straordinari quando ha potuto agire in contesti lineari: una frattura, un’infezione, un intervento chirurgico. Ma si dimostra spesso inadeguata di fronte alla realtà sfuggente e multifattoriale delle malattie croniche, come l’autismo, i disagi psichici, le sindromi post-virali.
Ridurre la salute a un equilibrio biochimico, correggibile con farmaci, vaccini o supplementi, significa ignorare l’essere umano nella sua interezza: relazionale, emotiva, sociale, ecologica.
In questo contesto, il vaccino – in particolare durante la pandemia – è stato trasformato da strumento terapeutico a simbolo salvifico, promosso come unica via, oltre ogni dubbio, oltre ogni prudenza. Il dissenso, anche quando motivato da dati e buon senso, è stato ridotto al silenzio con etichette semplificatorie. Si è creata una logica binaria, amico-nemico, che ha dissolto il confronto e inaridito il pensiero critico. Questo non è scienza: è ideologia travestita da certezza.
Eppure, la vulnerabilità alle malattie non si risolve solo con biotecnologie. Ha radici profonde: in ciò che mangiamo, in come viviamo, nell’aria che respiriamo, nel modo in cui costruiamo le nostre relazioni e gestiamo il nostro tempo. Ignorare questi fattori per inseguire l’efficienza rapida e standardizzata è miope e disumano. Se davvero crediamo nella scienza come metodo, dobbiamo riconoscere che essa non ci offre verità assolute, ma strumenti per convivere con l’incertezza. E per farlo abbiamo bisogno di cittadini consapevoli, non sudditi obbedienti. Di un dialogo autentico tra esperti e comunità. Di una medicina più umile, più attenta, più capace di ascolto.
Per una medicina centrata sulla persona
Abbiamo bisogno di una medicina diversa.
Non una medicina che ci riduca a numeri, statistiche o algoritmi.
Non una medicina che si limiti a intervenire sul corpo come se fosse una macchina da riparare.
Una medicina che ci riconosca come persone intere, con la nostra biografia, le nostre emozioni, le nostre relazioni, il nostro ambiente di vita.
Una medicina che ascolta prima di prescrivere, che accompagna prima di correggere, che dialoga invece di imporre.
Una medicina che considera la fragilità non come un errore da eliminare, ma come parte essenziale dell’esperienza umana.
Che sappia unire il rigore della scienza alla profondità dell’ascolto, la competenza tecnica alla sensibilità etica.
Nel nome della salute pubblica, negli ultimi anni abbiamo assistito a un crescente ricorso alle vaccinazioni obbligatorie di massa, spesso giustificata con semplificazioni e retoriche emergenziali senza prove scientifiche adeguate. L’obbligo indiscriminato, senza valutazione personale individuale, è l’opposto di una medicina centrata sulla persona.
Ogni vaccino ha caratteristiche diverse, ogni organismo risponde in modo unico. Ignorare questa complessità in nome dell’efficienza significa sacrificare l’individualità sull’altare della statistica. Senza scienza. L’obbligatorietà crea diffidenza, annulla il consenso informato, divide la società in obbedienti e “renitenti”. Trasforma un atto sanitario in un atto ideologico. Una medicina che impone invece di spiegare, che obbliga invece di convincere, non è una medicina di cura. È una medicina del potere.
Vaccinare può essere anche una scelta utile, in alcuni casi fondamentale. Ma deve essere una scelta consapevole, libera, rispettosa della diversità dei corpi e delle coscienze.
La vera prevenzione non si costruisce con decreti e pass sanitari, ma con educazione, fiducia, relazione.
È questa la vera medicina centrata sulla persona:
- una medicina che cura, ma anche che si prende cura;
- che non separa il corpo dalla mente, né l’individuo dal suo contesto;
- che restituisce dignità al paziente e responsabilità al cittadino.
In un tempo in cui il rischio è quello di essere trattati come oggetti da standardizzare, è urgente rimettere la persona al centro. Non come slogan, ma come pratica concreta, come atto di giustizia, come scelta civile.
Perché la salute non è solo assenza di malattia.
È senso, relazione, consapevolezza, libertà.
E la vera medicina, quella che cura davvero, comincia da qui.