Non so esattamente cosa mi aspettavo, ma alla fine del discorso di Donald Trump mi sono ritrovato a pensare: tutto qui?
Nemmeno un pulsantone premuto in diretta per sparare un missile su una barca venezuelana nel Mar dei Caraibi? Nemmeno un migrante centroamericano portato sul palco in una gabbia per pubblicizzare il funzionamento di “Alligator Alcatraz”?
Mi rendo conto che sono pensieri osceni, e un po’ mi vergogno ad usarli qui ironicamente, seguendo quella stessa logica perversa per cui la crudeltà può essere anche uno spettacolo, ma il presidente degli Stati Uniti ti porta sempre ad alzare l’asticella. Ad aspettarti il massimo anche quando il massimo è la cosa peggiore del mondo.
E così, quando è finito il suo discorso rispettando il limite di due minuti che la FIFA aveva fatto trapelare alla stampa con l’implicita consapevolezza che Trump avrebbe potuto naturalmente sorpassarlo, quando ha lasciato lì il “premio per la pace dalla FIFA” senza nemmeno alzarlo come se fosse la vera Coppa del Mondo, ecco, quando semplicemente le luci si sono abbassate e lui è sceso dal palco ci sono rimasto male.
Davvero adesso avrei dovuto guardare solo un sorteggio?

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Lì per lì ho avuto l’impressione che, forse per la prima volta in vita sua, Donald Trump fosse in imbarazzo. Chissà, magari la bruttezza irricevibile del premio – con quelle mani scheletriche che sembrano uscire dall’inferno e bramare la Terra per portarcela – aveva colpito persino lui, che ha riempito la Casa Bianca d’oro. Magari la scritta in sovrimpressione che lo definisce “onorevole”, il video di presentazione che elenca tutti gli accordi di pace che la sua amministrazione avrebbe concluso, Infantino che con la più grande faccia di bronzo che io ricordi sostiene che quel premio viene consegnato ogni anno, forse tutto questo era troppo persino per Trump.
Oppure, semplicemente, il presidente degli Stati Uniti ha avuto un bagliore di consapevolezza: di come quel momento pensato solo ed esclusivamente per lui fosse nient’altro che un contentino per alleviare la nota delusione per non aver ricevuto il premio che veramente desiderava: il Nobel per la Pace conferito dal Comitato di Oslo.
Magari Trump, almeno per un istante, si è davvero vergognato rendendosi conto che tutti – Infantino, ma anche Heidi Klum e le altre migliaia di persone al Centro John F. Kennedy – erano lì non per il sorteggio ma solo per lui, per farsi vedere dal grande re e al tempo stesso per far sentire il grande re importante.
Questa, però, è con ogni probabilità solo una mia proiezione. Ma non importa, il punto è che rispetto alle aspettative della vigilia è stata una cerimonia molto sottotono e istituzionale, almeno per gli standard di Donald Trump, che sembra avere il potere di trasformare qualsiasi cerimonia in uno shit-show.
Ma anche questa in fin dei conti è una riflessione oscena: significa che l’asticella è stata alzata così in alto che tutto ciò che rimane sotto non ci fa più effetto – e in questo modo non riusciamo più nemmeno a vederlo. In altre parole: ci sembra normale e quindi poco degno della nostra attenzione.
Non serve citare gli aspetti più materiali e quindi grotteschi della faccenda. Tipo il rapporto tra Infantino e Trump, intrappolati in una scena di The Office; o il discorso di ringraziamento che sembrava uscito da un racconto di Philip K. Dick – come non pensare alla Precrimine in Minorty Report quando Trump ha dichiarato di aver fermato guerre «prima ancora che iniziassero»? – o il video introduttivo preparato dalla FIFA, su cui si potrebbe fare un pezzo a parte se solo stessi scrivendo su Limes o Foreign Affairs invece che su Ultimo Uomo.
No, non serve spiegare perché è assurdo oggi dare un premio per la pace a Donald Trump, anche se è un premio di cartapesta e non è il Nobel. Forse è più utile guardare all’altra metà della luna, di cui Gianni Infantino teoricamente è presidente, seguendo l’approssimazione per cui la FIFA è sostanzialmente l’ONU del calcio (e quella ancora più grande per cui l’ONU è il governo del pianeta Terra).
Ecco mi sembra importante ribadire oggi che, se ieri abbiamo visto questo spettacolo, è soprattutto responsabilità di Gianni Infantino e della FIFA nel suo complesso. Sono stati Gianni Infantino e la FIFA ad accettare di spostare il sorteggio al Centro John F. Kennedy, diventato negli ultimi anni uno dei più importanti ritrovi MAGA. Sono stati loro a pensare a questo premio (magari grazie a qualche suggerimento americano) e a dedicargli la parte più importante di un sorteggio che, come detto dallo stesso Infantino, è stato guardato da circa un miliardo di persone a casa.
Sono stati loro a ideare e produrre un video ufficiale della FIFA che, di fatto, era un video di propaganda del presidente degli Stati Uniti, rivolto ai propri cittadini e al resto del mondo.
Il problema, qui, non è tanto la connivenza del presidente della FIFA con i potenti del mondo – connivenza che c’è sempre stata e forse inevitabilmente sempre ci sarà. Così come non avrebbe senso rivendicare un immaginario confine tra sport e politica, di solito invocato in maniera ipocrita dalle istituzioni sportive quando un giocatore o un dirigente prende una posizione poco gradita. Le istituzioni sportive, come la FIFA, hanno sempre fatto finta di difendere questo confine per evitare di rimanere imbrigliate in battaglie politiche su cui non avevano nessun potere, ma che avevano la forza di dilaniarle dall’interno.
E per quanto ci possano fare schifo le posizioni di facciata dobbiamo riconoscere che quella facciata serviva alle istituzioni sportive come la FIFA per preservare il proprio universalismo e di conseguenza la propria sopravvivenza. La FIFA ha l’onore e l’onere di organizzare il più importante evento sportivo del mondo e, da questo punto di vista, l’ipocrisia di lavarsi le mani delle cose del mondo in pubblico – mentre dietro le quinte le mani le stringono praticamente a chiunque – le serve ad evitare che qualcuno possa dirsi ufficialmente escluso da un evento che per definizione deve essere “mondiale”, oppure non è.
Lo spettacolo di ieri non solo ha superato il confine tra sport e politica, ma lo ha fatto in modo palese, mettendo in scena questo stesso superamento, trasformandolo in rito durante un evento (il sorteggio) che, per quanto simbolico, rimane uno dei più importanti della vita istituzionale della FIFA.
Siamo in un’epoca ossessionata dall’autenticità, dalla distinzione tra ciò che è vero e ciò che non lo è, e ci dimentichiamo della forza sotterranea dei riti e delle cerimonie nel definire la norma, cioè la “regola di condotta […] che ha per fine di guidare il comportamento dei singoli o della collettività”.
Ieri la cerimonia prevedeva che il presidente della FIFA smettesse di lavarsi le mani delle cose del mondo e che pubblicamente parlasse di cose come le relazioni internazionali tra Azerbaijan e Armenia, gli accordi di Abramo o addirittura il trattato di pace tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo (!).
Un cambio di registro che da oggi costringerà il pubblico e le federazioni a trattare Gianni Infantino per quello che si è mostrato pubblicamente: non il presidente della FIFA ma uno dei tanti megafoni della propaganda di Donald Trump.