È la seconda volta, la prima era stata con Nora Ephron, che qualcuno ci dice in un libro che sta morendo, e riusciamo comunque a farcene cogliere di sorpresa. Il cancro di Martin Parr era verso la fine di “Utterly lazy and inattentive: Martin Parr in words and picture”, uscito un mese fa: l’autoscatto in ambulanza nel 2021, il mieloma che vedono per caso mentre gli fanno una risonanza per capire perché vomiti così tanto.

In primavera sono andata a una mostra alla Tate. S’intitolava “The 80s: Photographing Britain”. Certe cose erano belle: la fotografa che va a scattare in un club riservato ai signori nel quale le signore non sono ammesse neppure quando una signora è primo ministro; quella che fotografa i cartonati della Thatcher su cui la gente lancia vernice. Ma nessuna aveva l’impatto che aveva entrare nella stanza in cui c’erano le foto di Martin Parr.

Forse l’unico altro fotografo che anche uno spettatore non avvertito, non appassionato, uno che mai abbia dedicato mezzo pensiero all’estetica, forse l’unico altro fotografo che anche il pubblico che non si dà un tono alle mostre riconosca con questa precisione è Helmut Newton.

Nonostante facciano entrambi una cosa con caratteri così netti – di là il bianchennero mignottesco, di qua il colore fantozziano – da sembrare facilmente riproducibili, e infatti vantino innumerevoli tentativi di imitazione, sono inimitabili.

A quella mostra c’era una serie del 1988, intitolata “Work Station”, su gente che stava lavorando, scattata da Ann Fox, la stessa che l’anno dopo avrebbe fotografato i cartonati della Thatcher. In una foto c’era una bionda, coi tipici capelli cotonati anni Ottanta, e un enorme accrocco con attaccato un telefono, la versione primitiva d’un cellulare. È in piedi in mezzo ad altra gente, guardano in una direzione che dev’essere l’uscita dei passeggeri, la didascalia ci spiega che è la bionda è una funzionaria discografica che aspetta di accogliere Madonna a Heathrow. È impossibile vedere la foto e non pensare, della povera Fox: guardala, vuol essere Martin Parr.

Non c’è una foto di Martin Parr che non riconosciate vedendola, e non c’è una riga di questo articolo che non sia inutile, tranne quelle che linkano alle foto. È inutile vi descriva le tizie coi cappelli a falda larga di nessuna delle quali si vede la faccia perché tutte sono chine sui cellulari, il bambino in mezzo alla spazzatura, le russe nel primo McDonald’s aperto a Mosca, i bambini che sbavano guardando la gelataia, i clienti del duty free che accumulano birre: se le vedete le riconoscete, ma le descrizioni sono monche.

Che siano quelle delle curatrici delle mostre che dicono che Parr è vicino al soggetto della foto ma anche distaccato, che siano quelle del direttore artistico secondo cui è un fotografo che vuole rappresentare la piccola borghesia di cui fa parte, che siano quelle di Parr stesso che diceva di voler riprodurre la piccolezza dell’essere umano: è come dire che Fellini è quello delle tettone. Sì, lo è, ma mica è tutto lì.

Parr iniziò a fotografare in bianco e nero, perché era così che facevano gli artisti e perché così le sviluppava più facilmente; poi, una decina d’anni dopo, si accorse che gli piacevano di più le foto a colori che faceva per commercio che quelle in bianco e nero che faceva per arte. Diventò famoso come quello dei colori saturi, eppure non c’è una delle sue foto in bianco e nero – le suore col cigno, le signore appisolate in chiesa – che non sia immediatamente riconoscibile come sua.

Ha inventato un’estetica, o l’ha solo vista? Non è vero che ha inventato l’autoscatto: il suo progetto di autoritratti viene prima di Thelma e anche di Louise, ma dopo Inge Feltrinelli ed Ernest Hemingway; è però forse vero quel che dice Grayson Perry in “I am Martin Parr”: ha colonizzato il nostro inconscio visivo, ci sono interi pezzi di realtà che ora osserviamo pensando «è una foto di Martin Parr».

Raccontava Martin Parr che la sua foto più famosa avevano cercato di scroccargliela in due. Due giovanotti, entrambi sostenevano che le loro nonne fossero quella signora lì, quella che prendeva il sole con gli occhialini di plastica blu. Non sapevano però dire dove la foto fosse stata scattata. La signora – che non si era svegliata da un sonno profondo mentre lui scattava con una combinazione di lenti che saturava i colori e faceva sì che Martin Parr fosse Martin Parr molto prima dei filtri di Instagram – non si era mai fatta viva: chissà se era la nonna di qualcuno. Di sicuro era la madre di tutta la mia generazione.

Nessuna descrizione della foto disponibile.Immagine tratta dal profilo Facebook Martin Parr

Come tutti, la prima volta che ho visto la signora è stata nel 1999, lo stesso anno in cui Amica gli commissionò il suo primo servizio di moda. La vidi su una parete di “Common sense”, la mostra di Martin Parr a Palazzo delle Esposizioni, quella che fece dire a tutti i profani: ma chi è questo qui, con questo sguardo diverso da tutti. (Gli anni Novanta sono stati un’epoca talmente assurda che potevi perfino avere delle illuminazioni culturali stando a Roma). Ma chi è questo qui che sta inventando i filtri di Instagram, che Instagram neanche possiamo ancora sognarci esista.

Come tutti, mi pareva (mi pare ancora) che quella foto lì sia il miglior trattato sugli anni Ottanta. Chi li ha mai più visti, quegli occhialini che le nostre madri usavano per non accecarsi nei lettini di lampada abbronzante, o mentre adoperavano uno specchio per rifrangere i raggi solari e farsi venire più rapidamente il cancro alla pelle ricoperte d’olio di bergamotto? Eppure la foto è stata scattata nel 1997. Vorrei sapere tutto, della signora che, pur di scansare la grave eventualità di avere sull’abbronzatura il segno di normali occhiali da sole, sulla spiaggia di Benidorm usa quel reperto degli anni Ottanta, quel segno d’un tempo preciso che confonderà gli archeologi.

In “Utterly lazy and inattentive” c’è una foto della fontana di Trevi scattata nel 2024. Parr la scattò, dice, dopo anni di tentativi vani, c’era sempre troppa gente perché si vedesse qualcosa, «il turismo è impazzito, post-Covid». «Tutti vogliono di più, più aerei, più tutto, e la gente come me contribuisce, viaggiando in posti come Roma».

A Parr non importava granché che tutti ormai facessero foto, che tutti pensassero d’essere Martin Parr, perché non era nella posizione spaventosa di chi ha un talento così fragile da temere che chiunque gli sottragga il posto. C’è una sua foto con la moglie a un ricevimento della regina Elisabetta, gliel’ha scattata la figlia: «È una bella foto? Fa quel che deve».

A quel ricevimento gli dissero che si poteva portare solo una macchinetta piccola, e lui lo fece, e scattò, ma poi gli fecero sapere che quelle foto non poteva pubblicarle. Le proiettava quando andava a parlare al pubblico, su quello non c’erano veti, e chi era in platea si sentiva speciale a vedere le immagini inedite degli invitati che facevano la fila per i tramezzini nei giardini di Buckingham Palace (che sappiamo che Parr sarà riuscito a far sembrare indistinguibili dal buffet della prima comunione d’un nostro nipote di provincia).

«Non esiste la foto perfetta, ogni mattina esci e speri che la scatterai, ma perlopiù non ci riesci»: lo dice in “I am Martin Parr”, uscito all’inizio di quest’anno, neanche quattr’anni dopo la sua diagnosi, lo dice mentre si aggira a far foto appoggiato a un carrellino di quelli che i vecchi usano per camminare, stacca le mani solo il tempo di prendere la macchina fotografica appesa al collo e scattare. Un omino inglese coi sandali. «Vado a fare la spesa e nessuno m’infastidisce: mica sono una superstar». Mi dispiace essere ripetitiva con le citazioni, ma non ho ancora trovato un modo di spiegare il dualismo migliore di quello con cui Marguerite Duras criticò la bellezza dell’attrice scelta per impersonarla in “L’amante”: una così può solo essere guardata, mai guardare.

L’autrice di “Utterly lazy and inattentive” gli ha chiesto per quindici anni di scrivere una sua biografia, ma lui dava risposte laconiche, diceva di non avere niente da dire. Finché Wendy Jones ha capito: doveva metterci le foto. Sì, tutto bello, i racconti d’epoca, Cartier-Bresson che non vuole che la Magnum prenda in agenzia quel fotografo di brutture, il direttore della fondazione Cartier-Bresson che decenni dopo propone di affiancare le loro foto, le teorie sulle schifezze da fast food più fotogeniche del cibo stellato: tutto giusto, tutto interessante, ma non serve.

Le teorie vanno benissimo, ma vuoi mettere quanto sono eloquenti le mani piccole e cicciotte, con le unghie sporchissime, della bambina che afferra la ciambella fritta? Non c’era molto altro da aggiungere, a come sapeva guardare; non essendoci molto da aggiungere, l’uomo che guardava poteva permettersi di non smaniare per farsi guardare. Che è la ragione per cui nessuna persona sensata avrebbe mai potuto scambiarlo per uno di Instagram.