Sono già passati dieci anni da quando è uscito Baskin – La porta dell’inferno, l’esordio fulminante di Can Evrenol, piazzando la Turchia sulla mappa del cinema horror e rimanendoci sostanzialmente da solo. Meglio soli che male accompagnati, no?
Abbiamo rivisto Can in azione con il lovecraftiano Housewife, e con un potente corto in Field Guide to Evil, e poi è sembrato uscire dai radar internazionali. Di recente è però tornato a girare i festival con una doppietta micidiale: ve la presentiamo, e poi ne parliamo con lui in persona.
A voi:

SAYARA [IMDb | Trailer]

Com’è un film di vendetta e arti marziali ideato dalla mente dietro alla discesa negli inferi di Baskin? La risposta non potrebbe essere più ovvia: estremo. Sayara lavora come donna delle pulizie in una palestra di arti marziali e, quando non c’è nessuno, la usa per rimanere in esercizio. Nel mentre, la sorella Yonca ha una relazione con l’istruttore di autodifesa, un bullo viziato e arrogante proveniente da una famiglia ricca e ben collegata. Quando Yonca viene trovata “suicidata”, Sayara segue le orme del padre, che quando era in vita era un serio candidato a persona meno raccomandabile del pianeta: la vendetta che segue fa sembrare John Wick un cartone animato della domenica mattina. Evrenol rinuncia a combattimenti spettacolari per andare quasi esclusivamente di jiu-jitsu e derivati: non ne fa una questione di coreografie, ma di pura nera disperazione emotiva, raggiungendo livelli che francamente non vale nemmeno la pena sfidare. Sayara ha finora girato qualche festival, ma sta per uscire in homevideo.

THE TURKISH COFFEE TABLE [IMDb]

Mi rendo conto che a suo tempo abbiamo ciccato l’originale spagnolo, ma c’è da dire che non si tratta esattamente di un horror. Scritto e diretto da quel pazzo di Caye Casas, si trattava di una commedia nera in cui l’accento va soprattutto, molto forte, su “nera”. La premessa è di quelle che è meglio non raccontare in giro se non volete raggelare immediatamente la stanza, e ha a che fare con un tavolino da salotto che 1) è inguardabile, e 2) è al centro di un incidente che con fortissimo eufemismo definirò “piuttosto grave”. L’originale teneva quindi un tono da commedia teatrale di archetipi, accumulando situazioni di tensione ma, se lo chiedete a me, pasticciando un po’ il terzo atto. Evrenol parte avvantaggiato: da una parte sono temi che ha già sfiorato in passato, e dall’altra ha tutta l’intenzione di cambiare dal suo solito registro per rimanere fedele e rispettoso. Di conseguenza, ha il lusso di correggere là dove l’originale funzionava meno: semplifica, concentrandosi maggiormente sul protagonista, e aggiusta il finale. Per me, se dovete vedere una versione sola, segnatevi direttamente questa: era al Frightfest di Halloween, e spero arrivi presto in piattaforma.

L’INTERVISTA A CAN EVRENOL

(foto non recente ma hey, a sinistra c’è il mio disco preferito…)

Ammetto che i film turchi di genere di cui si sente parlare maggiormente da queste parti sono i famigerati Turkish Star Wars, Turkish Superman, ecc… Che posto hanno realmente in Turchia pellicole di questo genere? Sono cose con cui un filmmaker fuori dagli schemi come te è costretto in qualche modo a fare i conti?

La cosa interessante è che quel pazzo tipo di cinema turco finì del tutto, all’improvviso, con il colpo di Stato del 1980. Tutto il cinema turco morì per un po’, ed è molto strano per me dirlo, ma forse fu meglio così. Per cui in realtà quando ero ragazzino, tra gli anni ‘80 e ‘90, il box office turco era dominato dai film di Hollywood: Ritorno al futuro, Mamma ho perso l’aereo, Cliffhanger, Titanic… Là dove oggi invece trovi dieci terribili commedie turche che non hanno alcuna sincera intenzione a parte fare soldi, che purtroppo succede anche altrove. È per questo motivo che sono cresciuto principalmente con film di genere, specie quello da altri paesi. Hollywood ma anche film italiani, tedeschi, spagnoli. Quelli della mia generazione hanno scoperto solo dopo, grazie a internet, cose pazze come Turkish Star Wars, quando eravamo bambini non esistevano. Alcuni di quei film non sono nemmeno mai stati proiettati a Istanbul ma solo in qualche città dell’est. Alcuni addirittura sono stati distribuiti solo nel mercato VHS turco-tedesco. Ad esempio Homoti, l’E.T. turco: erano troppo imbarazzati per distribuirlo in Turchia, per cui è stato fatto uscire unicamente in VHS in Germania pensando che tutti se ne sarebbero dimenticati velocemente. Per cui è quella la mentalità, l’eredità con cui ci confrontiamo. Ma io sono cresciuto con film stranieri, o con qualche arthouse turco lento e realista, come i film di Nuri Bilge Ceylan e Zeki Demirkubuz. Baskin e Sayara partono da qua.

Passiamo a Baskin – La porta dell’inferno. Non so se conosci la storia di Punto di non ritorno: si dice che il regista Paul WS Anderson abbia girato circa 40 minuti di puro inferno, un orrore indicibile tra Lovecraft e Barker, poi non utilizzati perché ritenuti troppo terrificanti e ora purtroppo introvabili. Quando uscì Baskin sembrò – a me ma non solo – la cosa più vicina a come immaginavo quei leggendari 40 minuti. Qual è l’ispirazione dietro quello scenario?

Conosco la storia e ti ringrazio, è un gran complimento. L’ispirazione principale era il Grand Guignol. Volevo fare una mia versione del Grand Guignol: torture medievali, quel tipo di cose. E includerei nel Grand Guignol anche la New French Extremity [Alta tensione, Martyrs, ecc…, ndr]. Inoltre ero affascinato dai culti e dai loro leader: certi culti religiosi turchi, o certi culti musulmani americani, gli evangelisti, quelli di Scientology… E gli ultimi venti minuti di Apocalypse Now. La stupidità di certa gente, il potere di certi discorsi… Ma sono sorpreso positivamente da questo tipo di paragone perché non ho mai pensato all’Inferno mentre scrivevo e giravo il film, né in pre-produzione né in post-produzione. Pensavo piuttosto al Purgatorio: quella è una parola che abbiamo usato spesso durante la lavorazione. Mai “Inferno”. Poi però un amico mi ha suggerito la tagline “Cinque poliziotti vanno all’inferno” e mi è piaciuta, per cui l’ho usata. Volevo anche prendere questi personaggi molto virili e in posizione di potere, questi poliziotti dall’atteggiamento molto maschilista e arrogante, e metterli nella peggior situazione possibile.

C’è anche un po’ di Predator in effetti: prendi un gruppo di persone teoricamente addestrate per gestire situazioni molto difficili, le sorprendi con qualcosa che nemmeno loro riescono a reggere, e le vedi crollare.

Sì, anche Predator è stata una grossa fonte di ispirazione. Per un po’ di tempo la mia idea era proprio replicare i titoli di coda di Predator, con i personaggi che si girano verso la cinepresa e sorridono, come tocco di umorismo nero, ma poi ho preferito non rischiare di rovinare l’atmosfera. Per coincidenza però mi guardai Predator 2 durante le riprese, e c’è questa scena in cui uno stregone voodoo getta uno strano dado fatto di ossa, e ho finito per omaggiare quella.

Baskin è una storia di uomini. Ci sono praticamente solo personaggi maschili, si parla di sessualità e di psicologia maschile… Il tuo film seguente invece, Housewife, è invece una storia di donne. È stato un contrasto voluto?

Sì. Nel senso, dopo aver finito Baskin ero pieno di “energia maschile” per così dire, e mi sono detto che era abbastanza. Volevo fare qualcosa con donne. Qualcosa di oscuro, ma anche sexy. E per quanto possa suonare buffo, la prima cosa che mi è venuta in mente è stato il titolo, Housewife [Casalinga, ndr]. Non avevo ancora la storia in mente, non sapevo se sarebbe stata una storia mia o una specie di adattamento di Lovecraft, ma avevo deciso che avrei fatto un film intitolato Housewife. L’avrei ambientato in una casa, e avrei parlato di una donna che impazzisce. E pian pianino ho costruito tutto attorno a questo concetto. Però sì, volevo andare nella direzione opposta a Baskin e ripulirmi un po’ la testa.

Arriviamo a Sayara. Ho avuto l’impressione che dietro a una storia apparentemente personale ci fosse anche una forte componente politica.

Sì, nel senso che ogni personaggio è a suo modo legato a una figura dittatoriale. Non è quindi tanto una storia di crudeltà di personaggi cattivi, quanto di crudeltà della società che crea un ambiente tossico. Guardandola da quel punto di vista non c’è niente di particolarmente specifico, è una situazione che accomuna diversi paesi. L’idea è raccontare la storia di un tipo di malvagità che sbatte contro una malvagità più grande, che è un concetto che mi affascina e accomuna Baskin e Sayara. In Sayara ci sono questi ragazzi viziati e quasi intoccabili, tipici della società turca, che si scontrano con la figlia di questo super-agente del deep state russo che era praticamente il braccio destro di Putin. In ogni film c’è un mentore che funge da voce della ragione per l’eroe: Obi Wan Kenobi per Luke Skywalker, Miyagi per Daniel-san… Ma qui il mentore è il braccio destro di Putin. Uno che ha visto e fatto cose terribili.

Uno che non è esattamente molto felice della piega che ha preso la sua vita, e che comunque insegna alla figlia quello che ha imparato sperando che le serva a difendersi.

Più che una connotazione sociale direi che è una visione molto pessimista: se quelli che amo sono morti, non mi interessa se il mondo brucia. Anch’io, purtroppo, temo di sentirmi in un momento un po’ buio della mia vita in cui comprendo questo modo di vedere le cose. E sono sicuro di non essere l’unico. E Sayara impara questa mentalità dal padre, o forse è già in lei per via del suo rapporto con la sorella maggiore. E io ho deliberatamente evitato di mostrare il rapporto tra il padre e la sorella maggiore e lasciare che questa parte se la immagini lo spettatore.

La cosa strana di The Turkish Coffee Table invece è che quando senti la gente parlare dell’originale, dice che è una delle cose più macabre mai viste. Ma quando la si confronta con la tua filmografia… Non voglio dire che sembra una vacanza, ma sono situazioni che hai già sfiorato. Per cui lo sforzo, più che nel trattare un argomento rischioso, sembra essere semplicemente nel farlo in un modo diverso dal tuo solito. Come ti sei approcciato a questo progetto?

Ho cercato di rendermi la vita difficile… Ho cercato di sfidare l’originale, quello che la gente definisce uno dei film più tetri mai realizzati, e ho pensato di rispettare il genio di Caye Casas ma farlo ancora più nero, e con una fotografia 180 gradi opposta alla mia solita: luminosa, affidata a un direttore della fotografia turco abituato alle serie tv, un treppiedi stabile, quasi come una sitcom. Per cui in quel senso è più leggero. Ma per altri potrebbe essere il più pesante, per diversi motivi.

Sì, più che Baskin ricorda Hereditary: il momento peggiore non è la violenza ma la reazione ad essa, il modo in cui il protagonista si paralizza perché non riesce a elaborare cos’è successo.
Questa domanda vorrei farla anche al regista dell’originale ma, siccome sei rimasto fedele a questo aspetto, la faccio a te: cosa ti attirava di questo modo di raccontare molto semplice, teatrale, quasi caricaturale?

Principalmente il contrasto. Era una grossa sfida, e mi sono divertito. Ho cercato di essere molto specifico per quanto riguarda il casting, di cercare le persone giuste per interpretare ogni ruolo, e chiedere loro di essere più naturali possibile. Non volevo fossero troppo caricaturali, o troppo divertenti, perché quello era già nella natura dei loro personaggi. Per cui per quello che mi riguarda mi sono divertito a cercare questo stimolante equilibrio.

FINE

Il magico mondo di Baskin