L’ex patron del club che nel 2021 venne escluso per inadempienze tributarie: “Spariti per colpa del Covid, nessuno ci ha aiutati. Mi sentivo inutile, ho anche tentato il suicidio. Il nuovo Chievo di Pellissier? Un caffé con lui lo prenderei, se mi offrisse un ruolo dovrei pensarci”
Giovanni Battista Olivero
12 dicembre 2025 (modifica alle 08:03) – MILANO
La passione non è cieca, è visionaria. Lo diceva Stendhal e sicuramente lo condivide Luca Campedelli, ripensando alla sua passione più grande. Il Chievo. Che è stata la squadra della sua famiglia, poi è diventata la squadra di tutti perché era la protagonista di una storia meravigliosa. E infine è stata la squadra di nessuno perché è sparita. Meglio, uccisa, secondo la ricostruzione che Campedelli ha affidato alla sua rivisitazione di quell’epoca dal titolo emblematico: “Chievo, un delitto perfetto”. Oltre il dolore, però, resta la passione: “Sarò un folle, ma io sogno ancora di riportare in vita il ‘mio’ Chievo. Per me è una malattia. Del calcio mi sono innamorato a 3 anni e questo sport mi ha dato l’opportunità di passare più tempo con mio padre e di apprezzarne ancora di più l’umanità”.
Campedelli, perché dopo sei anni di silenzio ha deciso di raccontare la sua versione?
“Perché era giusto ristabilire la verità dopo tante falsità. Lo dovevo a mio padre, senza cui il Chievo non sarebbe mai esistito, alla mia famiglia, a me stesso e alla storia del club”.
È stato davvero un delitto perfetto?
“Sì, perché non abbiamo avuto possibilità di replica. Nessuno ha voluto prendere le parti della vittima o ha fatto in modo che la giustizia andasse più a fondo nella vicenda. Le istituzioni si sono limitate a dire che il Chievo non aveva impugnato la normativa della Figc, però nessuno ha voluto vedere che lo Stato durante il periodo Covid aveva fatto una norma istituzionale che di fatto ha reso il club non inscrivibile al campionato. Senza il Covid il Chievo sarebbe ancora in vita perché noi non avevamo problemi economici, gli stipendi dei giocatori erano stati tutti regolarmente pagati. Il Chievo è stato cancellato in sette giorni, quando nel settembre 2020 venne emanato un dispositivo che bloccava tutte le rateizzazioni. Se avessi avuto più tempo, di sicuro avrei trovato una strada, ma nessuno mi ha ascoltato e mi ha dato una mano”.
Si è mai chiesto quali errori ha commesso?
“Tante volte. Il più grande è stato non aver messo in sicurezza il Chievo prima di essere sospeso dalla carica di presidente perché imputato nel processo di Forlì per le plusvalenze. Sarei dovuto andare all’ufficio imposte e pagare tutta la cartella esattoriale per evitare la rateizzazione. Ci tengo a precisare che per le plusvalenze sono stato assolto, la condanna di due anni è per falso in bilancio e ho già fatto ricorso in appello”.
Che cosa ha fatto in questi anni?
“Sono stato dietro agli avvocati e mi sono dedicato alla scherma sportiva. Fino all’anno scorso seguivo una squadra di ragazzi disabili, li accompagnavo agli allenamenti e alle partite. Inizialmente si allenavano al Bottagisio, che dopo il fallimento del Chievo è finito all’asta ed è stato acquistato dal Verona. Una porcata: come se il Milan comprasse Appiano Gentile. Io non lo avrei mai fatto”.
Qual è stato il momento più duro?
“Novembre 2021, quando ho tentato il suicidio. Mi sentivo un peso, con addosso tutte le colpe del mondo. Non vedevo vie d’uscita. Avevo perso ogni briciolo di speranza, ora un po’ l’ho ritrovata. Il calcio è la mia vita, ma adesso preferisco quello dilettantistico, non inquinato dalla tecnologia. Sono stato solo qualche volta a vedere il Monza. Ho smesso anche di seguire l’Inter, squadra per la quale tifavo: da quando non c’è più Moratti ha perso la magia. Lui è stato uno dei pochi, insieme a Preziosi, a starmi vicino”.
Quale partita del Chievo le è rimasta nel cuore?
“Milan-Chievo 3-2: era la prima volta a San Siro, a parte Lupatelli, D’Angelo e D’Anna eravamo tutti nella metà campo avversaria. Abbiamo giocato benissimo, abbiamo fatto tre gol, loro uno eppure abbiamo perso. Devo ancora capire il perché…”.
C’è un grande campione che stava per acquistare? “Due. Nel 2002 Drogba era già del Chievo: l’unica condizione era la cessione di Eriberto e Manfredini, che purtroppo saltò. Nel 2006 Cavani si allenò con noi, ma secondo Sartori e alcuni membri dello staff non valeva la spesa di 500.000 euro. Giovanni è uno dei primi cinque dirigenti europei, però da quando è andato via con i suoi comportamenti mi ha fatto capire che non voleva bene al Chievo. Quando avrebbe potuto aiutarci si è trincerato dietro la società”.

Se Pellissier la chiamasse per proporle un ruolo nel nuovo Chievo, lei cosa risponderebbe?
“Un caffè con Sergio lo prenderei volentieri nonostante le incomprensioni dell’ultimo periodo. Mi farebbe piacere se mi chiamasse, a tutto il resto dovrei pensare. La nuova squadra si chiama Chievo, ma per me resta un’altra cosa. Il Chievo non è solo il marchio: sono le coppe, le maglie che disegnavo, le persone che lavoravano con me. Fatico a identificare il Chievo di oggi con il mio: quello era calcio per il gusto di farlo, senza altri interessi, con un presidente che soffriva per la squadra. Non abbiamo sollevato trofei, ma abbiamo vinto tante Coppe Scirea e Coppe Fair Play: per me valgono tantissimo e infatti le ho ricomprate quando sono state messe all’asta. Non potevo permettere che andassero perdute”.
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