Forse pure l’avanguardia ha ricevuto il suo particolare wrap di Spotify che chiude il 2025 e ora la corrente che ci ha attraversato scopre quanti anni ha, quanto ancora trascina: non sulla base di quello che ascolta (repertorio troppo vasto), ma a seconda di come è stata portata. Dentro le avanguardie c’è una goccia di contemporaneità perpetua e per capirne l’essenza, il legame con il presente, abbiamo messo uno davanti all’altro l’autore e critico Vincenzo Trione che ci ha scritto un libro sopra Rifare il mondo (Einaudi) e Francesco Manacorda, direttore del Castello di Rivoli, luogo interamente dedicato all’arte di oggi. E al suo potere. Si parte da una convinzione di entrambi: «L’avanguardia si è dissolta nella quotidianità».

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L’effetto Alka-seltzer citato nel libro. Quindi la si deve buttare giù per stare meglio?
Trione «È una trovata felice di Enzensberger: l’avanguardia non si smaltisce mai, restano i residui, come la polvere sul bicchiere. Prima era una lingua parlata da pochi oggi è comune. Non è più l’aspirazione a cambiare il mondo, ma mantiene tante possibilità grazie agli artisti che riattivano alcune singole idee».

Manacorda «L’anelito a rifare il mondo completamente è perso, gli artisti oggi pongono domande, invitano a guardare le cose in maniera diversa, chiedono la partecipazione. Il museo è simile a una farmacia dove cerchi sollievo».

Il libro di Adam Becker, fisico e divulgatore scientifico americano, More Everything Forever ha il pregio raro di ricercare una luce di razionalità in una cultura tribolata da cosmici entusiasmi e narrazioni imprenditoriali mascherate da trame filosofiche.

Becker mostra con lucidità che le strabilianti visioni dei nuovi oligarchi tecnologici anziché essere frutto di deduzioni scientifiche sono in realtà costruzioni mistiche figlie dello sfrenato desiderio di dominio ammantato di discutibili terminologie matematiche capaci di dar loro parvenza di necessità. Musk, Altman, Thiel, Andreessen lavorano sodo nel dar corpo ad una cosmologia su misura in cui l’infinito appare come nuovo metro politico e la crescita senza limiti null’altro che una sorta di antologia low-cost.

Ugo Nespolo

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Miriam Massone

07 Giugno 2025

Il manifesto del nuovo Futurismo oligarchico si propone con un’energia che surclassa quella delle storiche avanguardie novecentesche. Qui gli assiomi sono scarsi ed essenziali: ciò che è tecnico combatte tutto ciò che è umano, ciò che è scalabile è vero, il pianeta è soltanto un punto di transito e non un destino, l’intelligenza è solo potenza di calcolo, ciò che non cresce è un ostacolo, la storia non è un processo ma soltanto un bug, la democrazia così lenta e conflittuale, un dispositivo inefficiente e quindi è da riformattare.

Per principio si rifiuta il limite e l’infinito è solo una forma di governance, il futuro una funzione.

Intanto il mondo dell’arte, col suo corpo molle, ignora queste narrazioni e non oppone alcuna resistenza. Tutto l’Artworld ha smesso da tanto di relazionarsi col reale e le sue teorie che avevano avuto la pretesa di guidarlo, avanguardie storiche e neo avanguardie sono pian piano svaporate e mostrano ora soltanto il loro involucro formale. Il sistema che governa è quello del ciò che costa vale, nessuna risposta alle fantasie tecnocratiche, arte non fuori dal mondo ma fuori dalla storia.

Ugo Nespolo

 

L’antitesi che nutre i pensieri del nostro tempo possono essere rappresentate dalle opposte visioni di due filosofi: Nick Land e Markus Gabriel. Land col suo accelerazionismo technonichilista nutrito dall’idea che l’umano altro non sia che un accidente pronto a dissolversi nell’autopropulsione del capitale-macchina si contrappone a Gabriel che insiste sulla nuova ontologia del pensiero capace di sostenere la realtà del senso contro la sua riduzione ad algoritmo universale. Per Land il futuro vedrà l’intelligenza umana come un dato obsoleto mentre Gabriel sostiene che in assenza di senso il mondo scompare e che l’intelligenza artificiale non saprà prendere il posto della sua funzione originaria. L’Artworld schiacciato fra questi due poli non sceglie e si ritira, niente dibattito, solo si prende atto che le due prospettive possano esser trasformate in fatti estetici e dunque monetizzabili.

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Musei, biennali, fiere si stanno lentamente popolando di opere digitali, di tentativi di astrazioni tecnologiche. Anadol, Saraceno, Klingemann e tanti altri propongono superfici algide e splendenti, ipnotiche, proprio quello che Becker battezza come immaginario ingegnerizzato e che corrisponde alle domande implicite del mercato. Opere che non anticipano ma traducono e lo fanno in direzione del capitale, unico linguaggio che il sistema dell’arte adora e vezzeggia.

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10 Giugno 2022

I musei, dal canto loro, hanno da tanto abbandonata l’idea di essere i depositari del pensiero visivo e si addestrano ad essere teatri in cui si recita la tragicommedia del connubio tra estetica e spettacolo. Nelle luminose sale solo il passato come memorie antiquarie, il presente mondato di ogni disturbante conflitto. Sono spazi simili a laboratori neutri, qualcosa come centri di ricerche aziendali lontani dal clima delle autentiche istituzioni di cultura. Luoghi ideali per addomesticare il mondo mentre si omaggia lo sponsor.

Per questo e per molto altro si può peccare d’ingenuità o di superstizione nel credere che l’arte abbia forza e intenzioni di porsi come argine a questo neo Futurismo oligarchico. La retorica della forza come resistenza estetica è solo un triste giochetto letterario per cataloghi patinati. La vorace macchina culturale si mostra inerme, non ostacola nulla, non problematizza nulla.

La storia

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26 Novembre 2025

L’oligarchia del nuovo Futurismo si muove indisturbata dal momento che si è già impossessata di tutto quanto le serviva, qualcosa come un universo-arte arrendevole e inoffensivo, totalmente autoreferenziale, noncurante dei conflitti culturali e vuoto di qualsiasi mordente teorico che gli consente di dar forza e legittimare esteticamente ciò che accade altrove. Ciò che resta dell’arte è una malinconia strutturale, non certo e solo il taedium vitae leopardiano o lo spleen romantico e decadente fatto di angoscia esistenziale, nausea sartriana fino alla depressione o alla nevrastenia, si tratta piuttosto di una lucida forma di consapevolezza del proprio declino storico. L’arte non appare, come vuole Adorno, una forma sensibile che dà voce al negativo e conserva la memoria del dolore sociale e neppure la macchina simbolica di Lyotard, capace di produrre senso e desiderio, è piuttosto un produttore di valore economico fatto di oggetti più o meno raffinati che si muove in un sistema che pare rifiutarsi di pensare.

NELLA STORIA

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Facile intuire che il destino dell’arte non pare quello di essere lo strumento critico del presente ma un linguaggio che sia soprattutto collezionabile. Il nuovo Futurismo oligarchico non ha davvero nulla di collezionabile, si mostra piuttosto una forza espansiva tecno-metafisica, satura d’ingegneria e narrazione. A ben leggere il Techno-Optimist Manifesto del 2023 di Marc Andreessen si dice con chiarezza che il futuro appartiene a chi se lo può permettere e che coloro che non possono non contano. Intanto Nick Land sembra ridacchiare nell’oscurità mentre Markus Gabriel difende a fatica la luce del senso. Intanto l’Artworld è fuori da tutto, s’agita nel suo centro vacuo dove brillano i glitter, le opere si moltiplicano mentre il pensiero si ritira. Proprio qui Becker dice che l’arte non ha la forza di pensare alla salvezza, la struttura mercantile e relazionale le impedisce di prendere posizione.

Di certo il futuro che raccontano gli odierni oligarchi non sarà ostacolato dall’arte. Sarà semplicemente posto in cornice.

Non abbiamo idealizzato le avanguardie? Sono state anche strumentalizzate.
T. «Il nodo dell’arte e del nostro tempo sta lì, che sia ripreso o riletto nel tentativo di differenziarsi, è un punto di svolta e lo resta come passaggio epocale. Ci sono stati rari momenti di una convergenza internazionale nella storia: gotico, rinascimento barocco e avanguardia. Non è la mitizzazione della continuità: vedo l’avanguardia come progetto postumo, vince quando è morta. Come la moda che non si esaurisce, cita e si trasforma costantemente».

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M. «È come sviluppare dei germogli. L’avanguardia ambiva a un progetto totale, oggi si smontano piccoli pezzi e ci si guarda dentro. Il progresso non è più unilaterale verso il miglioramento, è un’esplorazione. Però i germogli sono tutti nell’avanguardia dove è nato il regime del brutto e della rivoluzione. Ci consegnano l’idea che è tutto è arte, poi si scopre che non è così. Io non so quante foto ho nel telefono, un numero schifoso e non sono arte. La avanguardia è un mito fondativo, pieno di situazioni irrisolte che oggi vengono riconsiderate».

Nel saggio si parla molto di fallimento, concetto dei nostri giorni. Le avanguardie non lo contemplavano, con Kentridge, artista caro a Rivoli e a Torino grazie alla scultura alle Ogr, si parla di «fallire insieme».
T. «Lo stile di Kentridge nasce dalla consapevolezza che l’arte totale non esiste, lui torna all’origine dei media, recupera il disegno: non in fase preparatoria, è proprio l’opera nella sua impossibilità di essere compiuta. Il fallimento smette di essere presa d’atto del limite, è la molla della scoperta».

Lo dice anche Michael Jordan: ho vinto tanto perché ho fallito di più.
M. «Esatto. Kentridge inventa nuovi mondi: non si trova nulla senza fallire. Se fai la nuova versione di un telefono, basta un’indagine di mercato per avere successo, se fai arte accetti il rischio».

Nel libro si parla di «contromonumentalismo». L’opera diventa sfondo o centro di protesta.
T. «Un tema delicatissimo che va affrontato senza lenti ideologiche. Non mi sento censore, né mi ispirano elogi a certi attacchi ambientalisti, ma l’ultima generazione ha un rapporto con il museo. Lo contestano quindi lo riconoscono, danno una valenza politica. “Fanno festa distruggendo”, riprendono il concetto di Bradbury e rivivono l’arte come azione. È una visione barbarica delle avanguardie».

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30 Dicembre 2022

M. «Quasi una visione inversa. Non condivido la reazione, a prescindere dalle istanze, ma è il rovescio dell’avanguardia: portano la vita dentro il luogo istituzionale. Dicono: chi se ne frega di Van Gogh se il mondo va in rovina. È retorica, però sottolinea pure la forza di Van Gogh e del posto in cui è esposto. Altrimenti non cerchi una risposta emotiva vandalizzandolo. È una guerriglia sentimentale e la fanno in un museo, non vanno allo stadio a lanciare la zuppa di pomodoro sui calciatori».

Entrambi frequentate i bad boy dell’arte, tra i primi ad accentuare un narcisismo che si è allargato alla società.
T. «Negli anni in cui si perdono le tendenze, dal 2000 in poi, la contemporaneità diventa un paesaggio disomogeneo in cui emergono le individualità importanti, Hirst o Vezzoli, per dire. Chi ha bisogno di portare in primo piano la soggettività, persino la propria faccia, ma il culto della personalità nasce prima. Vogliamo parlare di Picasso? Fin troppo scontato».

IL COLLOQUIO

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14 Ottobre 2025

M. «Per chi fa il mio lavoro a volte è necessario tentare l’operazione fittizia di separare le carriere: certi artisti sono insopportabili però creano il sublime. Il più sfrenato narcisismo ha un attimo in cui produce l’opera meravigliosa, poi l’autore resta come era, non si trasforma».

L’Italia che parte ha nella contemporaneità?
T. «L’arte italiana di ogni epoca riaffiora, purtroppo nella promozione della nostra cultura non siamo efficaci, c’è un nazionalismo che ostacola. Il futurismo, oltre le letture insopportabili che ne sono state fatte, torna perché era potente. L’Economist ha fatto di recente un parallelo tra Musk e Marinetti sia sulle intuizioni che sulle degenerazioni».

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31 Gennaio 2022

M. «Negli ultimi 30 anni c’è stato un disinvestimento dello Stato sulla contemporaneità, non c’è una rete di supporto. Per decenni non abbiamo esportato nulla anche per responsabilità degli artisti, oggi le conversazioni sono ripartite, la rete delle accademie resta debole, eppure gli stranieri ci riscoprono di continuo. Penso al caso Carol Rama, fino a dieci anni fa sconosciuta, adesso punto di riferimento».