di
Marco Imarisio
Le parole del consigliere di Putin. Mosca vuole che si ignorino le correzioni di Ucraina ed Europa al piano di pace
«Ripetere è imparare». Nei suoi frequenti conciliaboli informali con il gruppo fidato di giornalisti che segue il Cremlino, Yuri Ushakov smentisce il suo aspetto da serioso homo sovieticus e si abbandona spesso a qualche facezia. Come quella appena citata, richiamo evidente a una frase che quasi ogni studente dell’ex Urss si ritrovava scritta ogni mattina sulla lavagna.
La ripetizione come madre dell’apprendimento, questa la traduzione letterale, era un metodo scolastico diventato poi luogo comune, e sembra essere la linea guida alla quale si attiene il settantottenne veterano della diplomazia russa, che dal 2012 è Consigliere presidenziale per la politica estera. Un titolo che può significare tutto o niente, ma nel suo caso invece gli conferisce il ruolo di ministro ombra degli Esteri, che ad agosto ad Anchorage sedeva alla destra di Putin, e non certo per caso.
Tocca quindi a lui ribadire con aria sorniona la posizione della Russia. Tutto intorno è un agitarsi di ipotesi, ma la verità è che il Cremlino rimane fermo a quanto stabilito durante il sempre più misterioso vertice in Alaska. Le dichiarazioni di Ushakov sono copia conforme di quelle rilasciate lo scorso 15 novembre da Sergey Lavrov.
«Rifiuteremo qualunque proposta di finire la guerra in Ucraina se questa dovesse differire dai termini concordati in Alaska con Donald Trump», disse il vero titolare del dicastero. Ushakov ha ampliato il concetto, ed è significativo che a farlo sia stata una delle poche persone del ristretto circolo putiniano a sostenere la ricerca di una soluzione diversa dal responso del campo di battaglia.
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Oltre a ripetere che il Donbass è russo, sottolineando che «c’è la Costituzione a stabilirlo», con l’ultima modifica della Carta fondamentale che dichiara parte integrante del proprio territorio non solo le province di Donetsk e Lugansk, ma anche quelle di Zaporizhzhia e Kherson, il veterano della diplomazia russa ha mandato un chiaro messaggio per conto terzi alla Casa Bianca.
Dicendosi convinto del fatto che ci saranno «varianti in peggio» alla controproposta riportata negli Usa da Steve Witkoff e Jared Kushner dopo la loro visita a Mosca, ha aggiunto che se sarà così, meglio mettersi tranquilli per Natale, e pazienza se quella era la scadenza desiderata da Trump.
«In tal caso, poi ricomincerà il lavoro con noi, e per noi ci saranno molte cose, francamente, che già ci appaiono inappropriate… Perciò il processo sarà ancora lungo». Intanto, le televisioni hanno cominciato a definire Volodymyr Zelensky «il cosiddetto presidente dell’Ucraina», a sottolineare un altro pezzo mancante per la firma di qualunque accordo. Se il quasi amico americano ci tiene tanto ad avere un risultato subito, deve ignorare le correzioni giunte da Ucraina ed Europa, forzando una pace alla russa. «Ne mytiom, tak kataniem», dice Ushakov per spiegare cosa intende, recitando un antico proverbio. Se non con il lavaggio, con la stiratura. Con le buone o con le cattive, è questo il significato.
La Russia non cede sui territori e raggiungerà comunque i suoi obiettivi in Ucraina. Al tavolo negoziale o sul campo di battaglia. Dietro allo slogan «vogliamo la pace vera, non una tregua» ribadito da Dmitry Peskov, la voce del padrone, si nasconde anche la necessità del Cremlino di giungere a un trionfo capace di giustificare quattro anni di guerra fratricida. Il tempo è dalla sua parte, da qui ne consegue lo spostamento a data da destinarsi della conclusione di una trattativa sempre più difficile sancito da Ushakov. Poco importa se vero o meno, e quanto ci vorrà. Ma la Russia di Putin è convinta di avere la vittoria in pugno. E accetta solo una pace da vincitrice.
13 dicembre 2025 ( modifica il 13 dicembre 2025 | 12:58)
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