di
Luca Angelini

Dalle minacce sui dazi al caso Giappone, la Cina usa il dominio sulle terre rare come leva geopolitica. Ridurre la dipendenza è possibile ma è un percorso lungo, costoso e solo parziale

Ricordate cosa ha fatto Xi Jinping quando Donald Trump ha minacciato dazi a tre cifre contro le merci cinesi? Esatto, ha contro minacciato limiti all’esportazione di terre rare. Ma non è la prima volta che la Cina usa quell’arma. Nel 2010, Tokyo e Pechino ebbero l’ennesima disputa per le isole, a nord-est di Taiwan, che il Giappone chiama Senkaku e la Cina Diaoyu. All’epoca, ricorda l’Economist, il Giappone dipendeva dalla Cina per circa il 90% del suo fabbisogno di terre rare (che cosa siano e a cosa servano lo ha spiegato Giuseppe Sarcina qui). E molte delle sue linee di produzione industriale avanzata si erano ritrovate sull’orlo del blocco totale. I giapponesi furono costretti a rilasciare in fretta e furia un capitano di peschereccio cinese che, vicino alle isole contese, aveva speronato una nave della guardia costiera giapponese.

Da quel momento, a Tokyo capirono che bisognava sfilare dalle mani del colosso rivale quell’arma di ricatto. Il governo giapponese aveva subito approvato uno stanziamento supplementare di 100 miliardi di yen (1,2 miliardi di dollari) per le catene di approvvigionamento delle terre rare. La strategia nazionale per spezzare la morsa cinese ha comportato anche la ricerca di fornitori alternativi, la riduzione dell’utilizzo complessivo di terre rare e l’accumulo di scorte in vista di future crisi. «Un decennio dopo – scrive il settimanale britannico – il Giappone era riuscito a ridurre di un terzo la quota di terre rare che importava dalla Cina. Ma ciò significa che dipendeva ancora dal vicino dai modi coercitivi per circa il 60%».



















































Il che dimostra, secondo l’Economist che: 1) nel breve periodo è la Cina ad «avere le carte» come ama dire Donald Trump (e come lui stesso ha imparato con la retromarcia sui dazi contro Pechino); 2) anche nel medio-lungo periodo ridurre quella dipendenza è complicato; 3) è difficile replicare il controllo della Cina sull’intero processo produttivo, per non parlare delle sue dimensioni, e le due cose insieme le conferiscono un notevole potere di determinazione dei prezzi.

Non solo le terre rare sono difficili da estrarre, ma la loro raffinazione è anche un processo costoso, lungo e dannoso per l’ambiente che pochi Paesi vogliono ospitare (ne hanno scritto di recente anche Ferruccio de Bortoli e Alessandro Giraudo su L‘Economia del Corriere, ndr). Tant’è che persino la Cina, quando può, «esternalizza»: «Un esempio è il Myanmar – ha spiegato Massimo Sideri sul Corriere – un Paese meraviglioso dove oggi, dopo la recrudescenza della dittatura militare, non si può entrare. Le ditte cinesi che hanno acquisito il diritto di sfruttamento di questa famiglia di minerali lo stanno facendo peraltro con largo uso di arsenico (il modo più semplice ed economico per l’estrazione), inquinando l’ambiente e i fiumi che sfociano in Thailandia» (peraltro, anche l’amministrazione Trump ha mostrato di avere qualche mira sulle terre rare del Myanmar).

L’esempio giapponese torna, di nuovo, utile. Tokyo ha spinto per un accordo con l’australiana Lynas sulla fornitura di alcune terre rare estratte in Australia e lavorate in Malaysia. Ma quelle terre rare importate in Giappone tra il 2020 e il 2024 costano ancora in media il 50% in più rispetto alle controparti cinesi, secondo le stime di Mizuho, una banca giapponese. «Le aziende che producono missili e aerei da combattimento – sottolinea l’Economist – potrebbero essere disposte a pagare il sovrapprezzo pur di ridurre il rischio. Quelle che operano in mercati di consumo concorrenziali probabilmente no». Tant’è che, complice anche la crescita della domanda di terre rare, negli ultimi anni la dipendenza giapponese dalla Cina è risalita attorno al 70%.

De Bortoli e Giraudo ricordavano nel loro articolo che, sulle terre rare, «l’Unione europea ha reagito con un regolamento del 2024. L’intento è quello di estrarre, nell’orizzonte temporale del 2030, il 10 per cento delle materie prime rare, di raffinarne il 40 per cento e di riciclarne il 15 per cento. Anche il nostro Paese è impegnato, attraverso l’Ispra, a mappare la possibilità di ridurre la nostra dipendenza». Ed è notizia di pochi giorni fa che la premier Giorgia Meloni ha chiesto all’Eni di investire di più nel settore dei minerali critici (come litio, cobalto e grafite) e delle terre rare. L’esempio giapponese dimostra, però, che rendersi indipendenti da Pechino sarà un processo lungo, costoso e parziale. Non a caso, l’Economist lascia la conclusione a Suzuki Kazuto, dell’Istituto di Geoeconomia di Tokyo, secondo il quale la crisi del 2010 «era come cadere da un dirupo», la prossima crisi, invece, «potrebbe essere come venir urtati da un’auto: entrambe le cose sono gravi, ma stavolta almeno riusciremo a sopravvivere».

In un intervento su Commonplace, Daniel Kishi ha denunciato che l’attuale dominio cinese sulle terre rare «è il risultato cumulativo di decisioni prese dai politici statunitensi a partire dalla fine del XX secolo, che hanno permesso a un ecosistema di produzione interno di disintegrarsi e hanno consentito che l’economia statunitense diventasse dipendente da input critici provenienti da una nazione avversaria. (…) Alla fine del XX secolo, il centro di gravità delle terre rare non era nella provincia cinese della Mongolia Interna, dove si trova oggi, ma nel deserto del Mojave negli Stati Uniti. La miniera di Mountain Pass, scoperta nel 1949 e aperta nel 1952, produceva minerale di bastnäsite e, cosa altrettanto importante, gestiva il complesso processo di raffinazione che lo trasformava in ossidi e metalli. Dalla metà degli anni ’60 all’inizio degli anni ’80, Mountain Pass forniva tra il 60% e il 70% delle terre rare globali ed è rimasta una delle principali fonti mondiali fino alla metà degli anni ’90».

Ma mentre, negli stessi anni, Deng Xiaoping ripeteva «il Medio Oriente ha il suo petrolio; la Cina ha le terre rare», problemi ambientali e logiche commerciali avevano spinto gli Usa ad abbandonare la produzione interna, trovando più conveniente importare le terre rare dalla Cina (emblematica la vendita dell’azienda americana Magnequench, specializzata nella produzione di magneti di terre rare a due aziende statali cinesi ai cui vertici c’erano due generi di Deng). E c’è un episodio che ci riporta al punto di partenza. In quello stesso 2010 della disputa sino-giapponese sulle isole, si quotava a Wall Street Molycorp, che aveva acquisito la miniera di Mountain Pass due anni prima, sperando che i prezzi delle terre rare, andati alle stelle dopo i limiti imposti dai cinesi all’export, avrebbero gonfiato anche quelli delle sue azioni, consentendo gli investimenti per rilanciare la produzione. «Tuttavia – racconta Kishi – una volta risolta la crisi diplomatica tra Cina e Giappone, Pechino ripristinò il flusso delle esportazioni di terre rare e poi ampliò la produzione sovvenzionata dal governo, spingendo in giù i prezzi fino a livelli che qualsiasi produttore non sovvenzionato non sarebbe stato in grado di sostenere. La crisi decimò i ricavi di Molycorp, ne appiattì i margini e costrinse l’azienda al fallimento». Secondo Kishi la conclusione da trarre è chiara: «Il controllo del collo di bottiglia consente alla Cina di stringerlo quando serve – e di inondare il mercato quando vuole – utilizzando sussidi e direttive statali per impedire ai concorrenti di mettere radici. Questo è il problema che le politiche pubbliche devono ora risolvere».

Per sapere quanto sia complicato, citofonare Tokyo.

Nuova app L’Economia. News, approfondimenti e l’assistente virtuale al tuo servizio.

SCARICA L’ APP

Iscriviti alle newsletter de L’Economia. Analisi e commenti sui principali avvenimenti economici a cura delle firme del Corriere.

13 dicembre 2025 ( modifica il 13 dicembre 2025 | 15:47)