di
Mario Platero

Intervista a uno studente italiano dell’università teatro della strage compiuta da Claudio Manuel Neves Valente: «Avevamo capito che si trattasse di un ex studente per come si era mosso, ma eravamo terrorizzati all’idea che potesse non essere solo. Eravamo un’isola felice, ora ci siamo “normalizzati”»

La Brown University e l’America tutta dovrebbero essere più tranquille: il mistero è risolto. L’assassino di sabato all’Università di Providence è Claudio Manuel Neves Valente, 48 anni, un portoghese che aveva studiato li’ 20 anni fa e che, dopo il massacro e dopo aver ucciso lunedi Nuno Loureiro, un altro portoghese, si è a sua volta suicidato. Loureiro era coetaneo dell’assassino e forse suo compagno di studi all’universita a Lisbona. Era anche uno dei grandi accademici americani, al MIT, nei campi più avanzati della fisica del plasma. Anche Brookline, il quartiere di Boston dove si è consumato l’altro assassinio dovrebbe essere più tranquillo. Ma nessuno è davvero tranquillo davanti all’inspiegabile. Non gli studenti, non i genitori, non i professori, non gli americani che si confrontano di nuovo con l’ennesimo eccidio nei sacri luoghi dell’istruzione: odio puro? Invidia? Uno scienziato fallito che ha cercato rivalsa? Non lo sappiamo. Ma dobbiamo capire perché oggi nell’America polarizzata non ci si sente tranquilli. Lo chiediamo a uno studente italiano che, come altri studenti italiani, studia a Brown. La tragedia ha colpito vicino. È al quarto anno del college. Ha poco piu di vent’anni ed era a Brown poco lontano dall’aula dove si è compiuto l’eccidio. Lo chiameremo solo Pietro. Di questi tempi meglio non dire il cognome.

L’incubo è finito. C’è normalita’, ti senti più tranquillo?
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Normalità? Oggi sembra una condizione impossibile. Come mi sento? Frustrato e tradito. Certamente non tranquillo. Avrei voluto che questo assassino fosse stato catturato vivo per capire la sua motivazione, perché potesse andare in tribunale ed essere condannato ed espiare le cose orrende che ha fatto. Mi disturba che sia riuscito a chiudere la partita secondo i suoi termini, uccidendo innocenti a caso, senza rispondere del suo crimine».



















































Ti sorprende che fosse un ex studente di Brown?
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No. Per la dinamica di quel che è successo ci eravamo convinti che doveva essere uno studente o qualcuno che conosceva a fondo il campus. E questo ci disturbava ancora di più. Il nostro ambiente è bucolico, la sicurezza minima, lasciamo le chiavi della macchina in auto, non chiudiamo le porte, siamo isolati, non abbiamo mai avuto un crimine. Poi all’improvviso l’inferno».

Cosa ricordi dell’attacco?
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Ero al dorm, in camera mia, a tre minuti da Barus & Holley il complesso accademico dove c’è stato l’attacco, alle 16.02. Il primo messaggio ufficiale è alle 16.22 diceva c’è un “active shooter” in campus, scappa, corri, nasconditi, evacua Barus & Holley subito. Ma era già successo tutto. Noi studenti abbiamo della chat attive e già dieci minuti prima c’erano messaggi confusi: sparano a Barus e Holley – ho visto qualcuno coperto di sangue – che cosa succede?? Ecco questo era l’interrogativo più ricorrente: la mancata risposta a cosa succede. Avevamo paura, una grandissima paura. Perché vedi gli studenti che escono dal portone coperti di sangue, perché pensavamo che gli assassini fossero più d’uno. Ancora in giro, magari pronti a colpire nella notte che arrivava».

Perché vi siete convinti che fosse uno studente o un ex studente come si è poi purtroppo dimostrato.
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Perché il percorso per arrivare a Barus e Holley è complicato, devi salire le scale del nuovo edificio, da li’ passare al vecchio, c’è un lungo corridoio con alcune svolte, passi davanti a una grande mensa sempre piena di ragazzi. Poi giri a destra e c’è un corridoio con aule più piccole, per 20 studenti. Erano piene. Non ha toccato nessuno. Perché? È invece andato dritto all’aula più grande. Forse pensava ci fosse un incontro scientifico visto che la struttura ospita corsi di scienza pura, laboratori, centri di simulazione. Forse per questo ha poi ucciso un grande accademico della scienza».

Torniamo all’aula e all’attentato che ha fatto tante vittime…
«In anfiteatro era appena finita la lezione. Io un’ora dopo dovevo essere nell’aula vicina. In anfiteatro non c’era un corso di scienza, ma un corso riassuntivo di economia 1 guidato da un assistente. Il corso intero ha 400 studenti, cosi si dividevano i ragazzi in piccoli gruppi di 60 per capire meglio la materia. Alcuni erano in coda per parlare con l’assistente, Jo, che tra l’altro è un mio amico. L’assassino spara subito entrando e colpisce i due ragazzi del primo anno e li uccide. Sono i due morti, lei era conosciuta, una grande atleta, attiva, presidente di un club politico. Il ragazzo era un immigrato dell’Uzbekistan, non li conoscevo ma capitava di vederli. Non ci sono più. Che brutto Natale per le loro famiglie e per quelle dei ragazzi ancora in prognosi riservata! E per noi».

In aula nessuno ha reagito?
«Reagire? Contro uno con la pistola? Tutti scappavano, altro che reagire. Ma quelli sotto erano intrappolati perché lui scendeva le scale minaccioso sparando. Così si sono nascosti sotto la cattedra, con Jo. E quello scendeva le scale e sparava e colpiva quelli che spuntavano da sotto la cattedra. Molti li ha colpiti alle gambe, alla schiena, una mattanza. Jo era coperto di sangue degli altri appena più giovani di lui, ma non è stato ferito. Poi gli spari cessano. Ma molti sono rimasti fermi a lungo, fingendo di essere morti».

E gli altri?
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Noi eravamo chiusi a casa. Nelle aule vicine i ragazzi dentro, sentiti gli spari, avevano blindato le porte con mobili e sedie e tavoli e spento le luci. Sono rimasti così fino alle 5 del mattino per il coprifuoco. L’assassino era a piede libero. Sappiamo che è uscito dall’aula andando a destra, dalla parte opposta da dove era venuto. A trenta metri c’era una porta che usciva su Hope Street, da lì ha girato a destra su Waterman, quando è sta scattata la foto che hanno visto tutti, l’unico indizio disponibile. Poi è sparito. Insomma era uno che conosceva il campus a fondo. Intanto Jo, (che finiva quel giorno!) risale le scale con una ragazza più grave che gli sanguinava sulle spalle. L’adrenalina lo teneva attivo. Ha subito dato testimonianza alla polizia in un presidio organizzato nell’anticamera dei pompieri, ha anche parlato con dei giornali».

E a Brown? Cosa resta?
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Eravamo davvero un’isola felice. L’incidiente peggiore? Un vagabondo innocuo che insultava ogni tanto qualcuno. Oggi ci sembra che anche Brown sia rimasta imbrattata dalla violenza, verbale o materiale talmente comuni in America. Almeno quattro studenti a Brown erano già sopravvissuti a una sparatoria a scuola. Noi siamo la prima generazione che a scuola deve fare un’esperienza di prova lockdown in caso di attentati. Bene, a Brown non l’avevano neanche mai fatta tanto impossibile pareva un attacco. E dopo ci chiedavamo, nel caso fosse uno studente: “Come può essere uno studente infelice a Brown”? Come dicevo era il miglior campus in America per la vita di ogni studente. Il caos che è seguito e che continua in questi giorni, ci ha dimostrato il contrario: anche Brown è stata “normalizzata”. Non so se potrà tornare ad essere l’isola felice di un tempo».

19 dicembre 2025 ( modifica il 19 dicembre 2025 | 13:21)