di
Federico Fubini

Putin nel 2026 sarà a un bivio. Il «no» alle riserve russe: un’occasione persa nella guerra e nella politica globale

La democrazia per Winston Churchill era «la peggiore forma di governo, eccetto tutte le altre» e la nostra generazione potrebbe dire qualcosa di simile dell’Unione europea: prende le decisioni peggiori, eccetto tutte le altre. L’eurobond per un «prestito» da 90 miliardi di euro per l’Ucraina, annunciato l’altra notte, rientra in buona parte nella categoria. Basta guardare a quanto hanno contribuito nel 2022-2024 al bilancio di Kiev gli Stati Uniti e l’Europa, per rendersi conto come in realtà l’accordo di Bruxelles sia provvisorio.

Nel primo triennio di guerra gli aiuti occidentali sono stati in media di 92 miliardi di euro l’anno — secondo il Kiel Institute for International Economics — con una lieve prevalenza della quota americana.
Da quando Donald Trump ha bloccato quest’ultima, l’Unione europea deve supplire quasi da sola. E non è facile. Solo la spesa militare costa all’Ucraina 53 miliardi di euro nel 2025, ma nel prossimo biennio non potrà che crescere con il rincaro dei prezzi nell’industria globale della difesa. Poi ci sono i costi civili per Kiev: ospedali, scuole da ricollocare nei sotterranei, centrali elettriche e ferrovie da ricostruire di continuo, milioni di sfollati. I 90 miliardi dell’Unione europea da soli non bastano certo per due anni, come si è sostenuto da Bruxelles in queste ore; forse neanche per uno.
Il più grande limite del vertice dell’altra notte è in quest’orizzonte ridotto.



















































Se l’Unione europea avesse mobilitato subito duecento miliardi in stile whatever it takes — e poteva, usando i beni russi congelati o aggiungendo al mix le risorse residue del Recovery Fund e del Meccanismo europeo di stabilità — il messaggio inviato al Cremlino sarebbe stato potente: noi non esitiamo e l’Ucraina resterà viva dentro questa guerra più a lungo di quanto la Russia possa restare al riparo da una crisi.

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Perché questo è l’aspetto meno compreso in Italia: la Russia è in transizione da una fase di difficoltà economica a qualcosa di più profondo. Alexandra Prokopenko, oggi esule dissidente ma fino al febbraio 2022 al vertice della banca centrale di Mosca, ritiene che il suo Paese sia avviato verso una crisi «strutturale» tra un anno e mezzo o due. Per il 2026, Vladimir Putin ha le risorse per continuare l’aggressione. Ma intanto, malgrado i loro limiti, le sanzioni mordono; erosa dalla fuga all’estero dei giovani e dagli arruolamenti di massa, la manodopera non basta più a far funzionare le imprese normalmente; quasi tutti i settori dell’industria civile sono in recessione; l’inflazione corre, il deficit di bilancio di Mosca sale con l’aumento della spesa militare, mentre le entrate da petrolio calano. La Russia non sta bene. Dare oggi i mezzi a Kiev per resistere altri due anni avrebbe segnalato alle élite moscovite che Vladimir Putin, con la sua ossessione ucraina, è diventato un problema anche per loro. Alla lunga il dittatore potrebbe dover scegliere fra continuare la guerra e tutelare il suo posto dentro al Cremlino.

Questo è l’obiettivo dell’Europa e in questo l’Europa ieri ha perso un’occasione. Né ha dato un segnale di forza rinunciando in poche ore al piano sul ricorso alle riserve russe, a cui Bruxelles e i governi avevano lavorato per mesi. Quel progetto aveva dei punti deboli, dunque non è assurdo in sé che per ora i leader abbiano deciso di soprassedere. L’errore è averlo fatto dando l’impressione che le minacce di Putin e le pressioni di Trump contro quel piano abbiano funzionato: visto il successo questa volta, di sicuro ci riproveranno alla prossima occasione.

Ma non è vero che il risultato del vertice sia solo negativo per l’Europa e per l’Ucraina. Quest’ultima riceverà comunque un’iniezione sostanziale di risorse. E il Consiglio europeo ha comunque varato un altro eurobond, dimostrando di saper aggirare i veti di Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. La Germania si è fatta carico dell’accordo e ne ha assunto il costo politico: un eurobond da 90 miliardi è una scelta contro cui Alternative für Deutschland si scaglierà con tutto il suo furibondo nazionalismo di destra. Il cancelliere Friedrich Merz ha firmato sapendo che non gli costa perché i 90 miliardi di debito comune sono garantiti da rimanenze del bilancio europeo attuale, fondi che la Germania ha già versato e comunque non rivedrà.

Ma Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron non hanno dimostrato, per certi aspetti, neanche la flessibilità calcolata di Merz. Sull’accordo di libero scambio con il Mercosur entrambi hanno continuato ad arroccarsi in difesa degli agricoltori, che pure avevano già ottenuto ampie garanzie e un ennesimo fondo di tutela da sei miliardi. Non resta che sperare che questo blocco venga meno in fretta perché, nell’anno dei dazi di Trump e del mercantilismo cinese più aggressivo, l’Italia e anche la Francia di quell’accordo hanno bisogno. Il Mercosur — con Brasile e Argentina dentro — è un mercato da trecento milioni di persone che cresce oltre il 3% l’anno. Con quel patto i leader europei dimostrerebbero che nel nuovo sistema globale anche loro hanno le «carte», per dirla con Trump.

Il presidente degli Stati Uniti non vuole il patto dell’Europa con il Mercosur, perché considera il Sudamerica il suo cortile di casa. Non vuole che l’Europa tocchi le riserve di Mosca, perché Putin gli prospetta una spartizione di quei fondi nel dopoguerra. Entrambi considerano i leader europei «deboli», «decadenti» (di nuovo, parole di Trump). E l’altra notte a Bruxelles i leader europei hanno fatto qualcosa per dimostrargli che ha torto. Presto, tuttavia, servirà molto di più.

20 dicembre 2025 ( modifica il 20 dicembre 2025 | 08:40)