Ci sono immagini che non vogliono dire, ma essere. Non raccontano, non commuovono, non si offrono subito alla comprensione. Eppure ci restano dentro. La Natività di Piero della Francesca – che vidi anni fa alla National Gallery di Londra – è una di queste: un’immagine che non chiede fede né spiegazioni, ma uno sguardo capace di sostare. In silenzio, senza fretta. Nella Natività, il tempo è immobile. Sospeso. Piero la dipinse per il palazzo di famiglia a Borgo San Sepolcro, dove rimase fino al 1825, originariamente appesa nella camera padronale. Un’opera pensata per uno spazio privato conserva, infatti, qualcosa di profondamente intimo. È una rappresentazione destinata a uno sguardo che torna, discreto, per una meditazione domestica che non ha bisogno di pubblico. Roberto Longhi ha descritto la Natività come un’opera tarda, segnata da una libertà compositiva insolita e da un tono più raccolto e domestico. La sua analisi mette in rilievo la geometria calma e la chiarezza – tratti distintivi di Piero – ma anche una certa scioltezza che lascia intuire la fase conclusiva della sua carriera. Piero riprende una celebre visione mistica di Santa Brigida di Svezia – Maria inginocchiata davanti al figlio appena nato – e la trasporta in uno scorcio di Toscana: una capanna parzialmente crollata, una luce trattenuta che regola ogni cosa. La rivelazione della mistica diventa realtà, senza perdere la sua qualità visionaria. Non c’è pathos in primo piano, né il repertorio di gesti materni che l’iconografia spesso mobilita per commuovere. È un trattenersi che non raffredda l’immagine: la condensa, come se l’emozione fosse compressa nella struttura, nella proporzione. Una misura che oggi sembra quasi introvabile.
La Vergine è inginocchiata a terra, le mani giunte, lo sguardo raccolto; il mantello azzurro si apre a proteggere il neonato. Il Bambino, deposto nudo a terra, minuto, non appare fragile nel senso consueto, né domina la scena. Sta. E la pittura gli concede esistenza senza eccesso, senza ostentazione del sacro, ma con una sacralità mentale. C’è qualcosa di severo, e insieme pietoso, in questa scelta: non aggiungere enfasi dove basta la presenza. Intorno, tutto è preciso: due pastori dietro Maria e Giuseppe – non in posa esemplare, non esibito – seduto sulla sella dell’asino, appartato, in un gesto che ricorda lo Spinario romano, il ragazzo nudo intento a estrarsi una spina dal piede. La sua interpretazione collega la posizione con le gambe accavallate a un gesto quotidiano, quasi familiare, che introduce un elemento di umanità semplice nella scena sacra.
E poi, gli angeli musicanti: isocefali – con le teste poste alla stessa altezza – segno di una geometria ancora rigorosa, ma dal tono più lirico e domestico. Anche la musica, qui, sembra obbedire a una disciplina fatta di ordine e armonia.
Per molto tempo la critica ha ritenuto l’opera non finita. Alcune abrasioni, certe assenze, perfino la mancanza di ombre furono lette come segni d’incompiutezza. Dopo il restauro del 2022, quella lettura vacilla: oggi possiamo osservarla quasi completamente restituita alla visione dell’artista. Non si trattava di mancanze, ma di danni causati da puliture troppo energiche e da interventi successivi che, nel tempo, hanno alterato la superficie – e con essa il modo stesso di leggerla.
La cromia spenta e alcuni dettagli naturalistici suggeriscono influssi nordici, forse assorbiti da Piero negli ultimi anni della sua vita. Le colline, le case, gli alberi non partecipano a un racconto: stanno, come se avessero già assunto la loro giusta posizione. Sullo sfondo si riconosce il borgo di Sansepolcro: un ritorno alle radici del pittore, all’ordine domestico e natale. Non è una scena in corso: è come se qualcosa accadesse, ma fuori dalla cronologia. Somiglia a un pensiero fissato in immagine.
Questo senso di sospensione, di silenzio mentale e rigore formale rende quasi naturale il passaggio a Giorgio de Chirico. Anche se il confronto va inteso con cautela: non perché Piero anticipi la metafisica con qualche dettaglio misterioso, ma per un’affinità d’atteggiamento. In entrambi, la luce sembra non prendere partito; il mondo appare regolato e, al tempo stesso, estraneo. Del resto, Roberto Longhi – davanti alla prima Metafisica – non fu indulgente: la sua celebre stroncatura del 1919, con il dio ortopedico, resta un promemoria severo su ciò che ci aspettiamo da una forma che vuole farsi pensiero.
Eppure è proprio il suo saggio del 1927 a trasformare Piero della Francesca nel simbolo di un ritorno all’ordine: pittura fondata su geometria, chiarezza e misura, capace di restituire equilibrio dopo le tensioni gotiche e fiamminghe. Lo mitizza quasi, fino a farne un pittore-filosofo, incarnazione di un pensiero visivo eterno. Così, se per Longhi Piero è il paradigma della razionalità rinascimentale, per me rappresenta un mito moderno: un teorema che attraversa i secoli e continua a influenzare l’arte.
Nel Novecento, soprattutto nel clima del ritorno all’ordine, molti pittori cercano nel Quattrocento non solo compostezza, ma una disciplina dello sguardo: la possibilità di trattenere il reale, di non interpretarlo subito, di non alzare la voce. In questa linea, Felice Casorati arriva quasi senza sforzo. Anche lui lavora su uno spazio mentale, su una sospensione temporale, su una figurazione che mira all’essenza più che al gesto. Il tema della maternità – o, più in generale, della madre con il bambino – ritorna più volte nella sua poetica. Non come soggetto sentimentale, ma come forma archetipica del pensiero.
Opere come Silvana Cenni (1922), Maternità (19231924), Daphne (1928) e Maternità con le uova (1958) mostrano con chiarezza la persistenza di una grammatica visiva e simbolica che risente della lezione di Piero: frontalità, silenzio, sospensione, luce mentale, figurazione essenziale. La vicinanza, qui, non va intesa come una discendenza lineare, ma come un riapprendimento: un modo per rimettere ordine nello sguardo. A questo punto, la distanza cronologica tra Piero e Casorati conta meno di quanto dovrebbe. Li separano secoli, ma li unisce un’idea condivisa: l’arte non come illustrazione, ma come presenza mentale. In entrambi, l’equilibrio non cancella il mistero: semmai lo rende più esatto. Anche per questo ho voluto approfondire il tema nel mio libro Natività. Madre e Figlio nell’arte (pubblicato nel 2024): era un’immagine, un archetipo, che da anni volevo affrontare. Il percorso attraversa i secoli, da Giotto al Novecento, seguendo un filo costante: la ricerca di una forma che sappia trattenere, senza spiegare; che non alzi la voce, ma insista in silenzio.
In questo arco lungo, da Piero della Francesca a Casorati, l’arte non si limita a rappresentare: pensa. E in quel pensiero visivo, che si fa equilibrio, misura, sospensione, continua a rivelarci un’idea essenziale della modernità – quella che nasce, prima di tutto, da un ordine interiore.