Leggendo la “massima” dell’ordinanza n. 9284 dell’8 aprile 2025 della Cassazione Civile (Sez. lavoro) sembra che in via generale – anche se con un «salvo che» – il conseguimento della pensione di vecchia sia irrilevante ai fini di un processo pendente con domanda di reintegrazione per illegittimità del licenziamento. La massima di Cass. civ. n. 9284/2025 appena citata è la seguente: «il conseguimento della pensione di vecchiaia da parte del lavoratore illegittimamente licenziato non comporta l’impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro, né l’estinzione automatica del rapporto di lavoro, salvo che tale conseguimento rappresenti un comportamento concludente idoneo a risolvere il rapporto stesso». Le “massime” sono individuate dall’Ufficio Massimario della Corte di Cassazione allo scopo di garantire una capillare informazione, con diffusione assicurata mediante l’immissione in una banca dati nazionale (Italgiure).
Andando però a leggere per esteso l’ordinanza di Cass. civ. n. 9284/2025, sembra che con la massima si dica qualcosa di diverso. Nell’ordinanza s’afferma: «la presentazione della domanda di pensione di vecchiaia e il conseguimento della stessa in un momento di gran lunga precedente l’instaurazione del presente giudizio costituiscono fatti ostativi alla reintegrazione, perché idonei a risolvere il rapporto di lavoro per volontà riconducibile allo stesso lavoratore, anche quale comportamento concludente idoneo a risolvere il rapporto di lavoro». Invece sarebbe irrilevante, quale comportamento concludente, il conseguimento di una pensione d’anzianità, non di vecchiaia.
In modo simile, sembra che si sia espressa Cass. civ., Sez. VI-Lavoro, 27 aprile 2022, n. 13203, che si è pronunziata su un accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito in ordine all’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro tra le parti in data successiva al licenziamento ed antecedente alla proposizione della sua impugnativa, in ragione di un comportamento concludente.Un apprezzamento nel merito, se i fatti costituissero o no comportamento concludente, «non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, così come non lo è qualsivoglia comportamento concludente che si assuma idoneo a risolvere un rapporto di lavoro, in ipotesi ancora sub iudice». Si continua in Cass. civ. n. 13203/2022: «nel quadro di tali principi, peraltro, l’effettivo pensionamento del lavoratore rende impossibile la reintegra. Pertanto, occorre accertare l’effettivo accesso del lavoratore alla pensione, quale circostanza impeditiva regolarmente eccepita; infatti (cfr. Cass. civ., Sez. lav., n. 1462 del 9 luglio 2012) solo l’effettivo pensionamento consente, ordinata la reintegrazione, di limitare il risarcimento al compimento dell’età di accesso effettivo alla pensione di vecchiaia, mentre non è rilevante a tali fini (salvi gli obblighi restitutori nei confronti dell’ente erogatore della pensione) il conseguimento della pensione d’anzianità».
L’alternanza fra “massima” e testo integrale talvolta complica. Nel tentativo personale di semplificare, sembra (“sembra”) in base alla massima di Cass. civ. n. 9284/2025 che in generale, e con un «salvo che», il conseguimento della pensione di vecchiaia sia irrilevante ai fini della concreta possibilità della reintegrazione per illegittimità del licenziamento, «salvo che», si diceva, tale conseguimento «rappresenti un comportamento concludente idoneo a risolvere il rapporto». La formulazione ipotetica della frase lascia dedurre che il «comportamento concludente», da cui sarebbe deducibile l’intenzione di accettare il licenziamento e d’abbandonare la domanda di reintegrazione, possa essere costituito anche, ma non solo, dal conseguimento della pensione di vecchiaia. Nel testo dell’ordinanza di Cass. civ. n. 9284/2025sembra invece che s’affermi il contrario e cioè che il solo conseguimento della pensione di vecchiaia costituisca sempre manifestazione implicita della volontà di accettare il licenziamento e rinunziare alla domanda di reintegrazione.
Cass. civ. n. 9284/2025pone però una condizione, nella ricostruzione di questa volontà implicita per comportamento concludente: sarebbe necessario che il conseguimento della pensione di vecchiaia sia avvenuto in un momento «precedente l’instaurazione del giudizio». In altre parole, un lavoratore non potrebbe più impugnare un licenziamento se prima dell’inizio del processo sia andato in pensione di vecchiaia, mentre può impugnare se sia andato in pensione di vecchiaia dopo aver iniziato il processo; invece, se sia andato in pensione d’anzianità prima o dopo il processo, può far causa sempre.
Non sono chiare le ragioni per cui una manifestazione implicita della volontà di far cessare il rapporto ed abbandonare il contenzioso abbia un diverso valore, a seconda del tipo di pensione conseguita (di vecchiaia o d’anzianità). [Detto fra parentesi, per cercare di chiarire con poche parole, la pensione “di vecchiaia” è quella normale che nel 2025/2026 si matura generalmente con 67 anni d’età e 20 anni di contributi, mentre la pensione “d’anzianità”, ora sostituita di fatto da quella “anticipata”, si matura prima in base soprattutto ai contributi in combinazione con l’età, ad es. età di 62 anni e 41 anni di contributi].
S’è poi confermato che il conseguimento della pensione d’anzianità, incompatibile con un rapporto di lavoro, non impedisce una reintegrazione nel posto di lavoro, sancito dal giudice a seguito di licenziamento illegittimo, perché «l’ottenimento della pensione [d’anzianità] non preclude la reintegrazione nel posto di lavoro», salvo ovviamente la restituzione dei ratei di pensione eventualmente incompatibili (Cass. civ., Sez. lav., 28/7/2025, n. 21640; Cass. civ., Sez. lav., 23/11/2023, nn. 32543, 325431, 32522 e 325221; Cass. civ., Sez. lav., 24/1/2022, n. 2010; Cass. civ., Sez. lav., 23/7/2018, n. 19520; Cass. civ., Sez. lav., 19/6/2018, n. 16136; per la giurisprudenza di merito, cfr. App. Milano, 29/3/2022, n. 275; App. Catania, 24/1/2019, n. 43).
Sembra di tornare a cinquant’anni fa
A quanto sembra, dunque, in base alla cit. ordinanza Cass. civ. n. 9284/2025 se prima d’iniziare un processo s’ottiene la pensione di vecchiaia non si potrebbe più impugnare il licenziamento, perché chiedere subito la pensione di vecchiaia (ma non d’anzianità) vorrebbe dire accettare il licenziamento, anche se impugnato dopo davanti al giudice.
In sostanza, per impugnare un licenziamento bisognerebbe rinunciare o ritardare la pensione, ma ritardare è comunque una rinuncia, anche se forse non rientra nell’assoluta indisponibilità delle pensioni. C’è da chiedersi come dovrebbe vivere quel lavoratore senza retribuzione e senza pensione, in attesa di vincere o perdere una causa contro il licenziamento, per cui solo alla fine potrebbe percepire gli arretrati di retribuzione (in caso di vittoria in giudizio) o di pensione (in caso di sconfitta). Sembra la metafora assurda per cui invece di mangiare ogni giorno nella settimana sarebbe sufficiente mangiare in un giorno solo, per sette volte.
Nella ricerca della memoria si deve andare molto indietro, agli inizi degli anni ’70. Fino ad allora in Cassazione era consolidato l’orientamento per cui si riteneva che il lavoratore, riscuotendo l’allora indennità d’anzianità, implicitamente avrebbe accettato il licenziamento che quindi sarebbe diventato inoppugnabile: si poneva allora l’alternativa drastica di non riscuotere le indennità di fine lavoro, nel momento di maggior bisogno, per impugnare il licenziamento illegittimo davanti al giudice. Si diceva che la riscossione delle indennità di fine lavoro, avendo coscienza dell’illegittimità del licenziamento, comportasse per il lavoratore una rinuncia all’impugnazione ovvero un’acquiescenza al licenziamento. L’indirizzo così drastico era nato nel 1951 con la sentenza della Cassazione n. 1182 (in Mass. giur. lav., 1951, 134) e continuò sempre conforme fino a Cass. civ., 22/7/1974, n. 2206. A nulla valsero le critiche di parte della giurisprudenza di merito e della dottrina.
Solo nel pubblico impiego s’era sempre affermato che riscuotere le indennità di fine lavoro non impedisce l’impugnazione del licenziamento (ad es. Cons. di Stato, Sez. V, 17/2/1970, n. 117, in Riv. giur. lav., 1971, II, 60). Infine, solo nel 1974, con la cit. sentenza Cass. civ. n. n. 2206/1974, la Cassazione cambiò improvvisamente indirizzo affermando che «la riscossione delle indennità di fine rapporto da parte del lavoratore licenziato non comporta acquiescenza o rinunzia all’impugnazione del licenziamento». Sul punto si rinvia a M. Miscione, Riscossione delle indennità di fine rapporto e impugnativa del licenziamento, in Giur. it., 1975, n. 12, I, 1, 1977.
Sono tempi antichi, ma sembra che ritornino. In quei tempi antichi si arrivava a varie assurdità, come quella in base alla quale per impugnare una modifica illegittima di mansioni o qualifica sarebbe stato necessario dimettersi prima (ad es. Cass. civ., 21/7/1973, n. 2141). Il cambiamento d’indirizzo, a seguito del quale il silenzio non voleva dire accettazione, fu merito però non della giurisprudenza ma dello Statuto dei lavoratori, che all’art. 13 (novellando l’art. 2103 c.c.) dispose che ogni patto contrario è nullo: in questo modo, almeno per mansioni e qualifica, il comportamento concludente e tantomeno il silenzio persero qualunque valore (ma forse sarebbe meglio usare il condizionale). L’idea del “comportamento concludente” o del consenso tacito gira sempre, magari in forme nuove, ma bisogna quantomeno che gli elementi di prova siano numerosi, logici, ineccepibili.
Al di là d’ogni altra considerazione, va considerato quel che s’afferma per l’irrilevanza della pensione d’anzianità, e cioè che i trattamenti e le discipline previdenziali sono separati rispetto al rapporto di lavoro e il regime delle pensioni non può influire sul rapporto.
Non si può ostacolare il diritto alla pensione
Le affermazioni dell’ordinanza n. 9284/2025 della Cassazione civile sono non argomentate, ma in parte corrette dalla relativa “massima”: quest’ultima però dovrebbe essere irrilevante, mentre conta unicamente il testo della decisione. Almeno così dovrebbe essere, ma c’è sempre qualche lettore frettoloso che si ferma solo alla massima, senza controllare il testo, che è un difetto antico.
In base al testo dell’ordinanza Cass. civ. n. 9284/2025 il conseguimento della pensione di vecchiaia sarebbe di per sé sufficiente per dedurre l’accettazione del licenziamento, ma ad una condizione: che il conseguimento della pensione di vecchiaia sia avvenuto prima dell’instaurazione del giudizio. In questo caso (pensione di vecchiaia prima del ricorso) secondo l’ordinanza il lavoratore sarebbe destinato a perdere la causa, fatta inutilmente e solo per subire una condanna alle spese legali.
I confronti rendono palesi le incongruenze. Non si capisce perché prendere la pensione di vecchiaia costituirebbe comportamento concludente con accettazione del licenziamento, mentre prendere solo la pensione d’anzianità è irrilevante. Non si capisce perché prendere la pensione di vecchiaia prima d’iniziare un processo costituirebbe comportamento concludente di accettazione del licenziamento, mentre prenderla dopo è irrilevante.
Forse quelle che sembrano incongruità derivano dalla mancata conoscenza delle situazioni di fatto, che nelle pronunzie citate sono tanto sintetiche da risultare poco comprensibili. Può darsi allora che il comportamento concludente di cui alla pronunzia di Cass. civ. n. 13203/2022 (da cui prende spunto la 9284/2025) fosse costituito da numerosi fatti e non solo dal conseguimento della pensione di vecchiaia; comunque Cass. civ. n. 13203/2022 non aveva potuto considerare o accertare quali fossero i fatti costituenti il comportamento concludente, in quanto aveva respinto il ricorso solo perché era stato richiesto un nuovo accertamento di fatto, impossibile nel giudizio di legittimità. Quando successivamente con Cass. civ. n. 9284/2025 s’è tornati sullo stesso argomento, è stato estratto nel testo o nella massima solo il pezzo relativo al comportamento concludente costituito solo dalla pensione di vecchiaia; forse c’erano altre considerazioni di fatto, che non risultano né potrebbero risultare nel testo dell’ordinanza del 2025.
Restano in ogni caso incomprensibili le deduzioni sulla diversa valutazione se la pensione di vecchiaia sia stata chiesta prima o dopo l’inizio del processo, con irrilevanza nel primo caso e con esito negativo nel secondo.
Si potrebbe concludere con la speranza che fra testo della decisione e sua massima ci sia una corrispondenza non solo formale ma anche sostanziale, evidenziando anche gli elementi di fatto condizionanti (le massime si finivano con la formuletta: «Nella specie, …»).
In base all’autonomia del rapporto previdenziale rispetto a quello di lavoro, la disciplina legale delle pensioni si colloca su un piano diverso rispetto al rapporto di lavoro, con irrilevanza dell’alternatività fra prestazioni. Comunque, è il trattamento previdenziale ad essere indebito se, per effetto dell’ordine di reintegrazione, ne vengano meno le condizioni. La separazione e l’autonomia fra previdenza e rapporto di lavoro dovrebbero indurre ad una grande attenzione. Impugnare un licenziamento davanti al giudice non può essere condizionato da una rinuncia alla pensione, perché anche un differimento è una rinunzia. Il diritto alla pensione non può essere ostacolato.
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