Quando Game of Thrones debuttò su HBO nel 2011, si presentò fin da subito come una serie ambiziosa ma apparentemente rassicurante nelle sue coordinate narrative. Il pubblico venne guidato dentro Westeros attraverso lo sguardo di Ned Stark, interpretato da Sean Bean, volto riconoscibile, figura morale solida, personaggio centrale intorno a cui ruotano politica, famiglia e conflitto. Tutto, nella prima stagione, sembrava costruito per convincere lo spettatore di trovarsi davanti al classico protagonista televisivo: l’uomo giusto in un mondo sbagliato.

È proprio questa costruzione così accurata a rendere devastante la svolta del nono episodio. L’esecuzione di Ned Stark non è solo uno shock emotivo, ma un atto di rottura deliberata con una delle regole non scritte più radicate della serialità televisiva: il protagonista non muore, e certamente non così presto. Con quella scelta, Game of Thrones comunica qualcosa di chiarissimo al suo pubblico: nessuno è al sicuro, nemmeno chi sembra portare sulle spalle il peso dell’intera storia.

Riguardata oggi, però, la prima stagione rivela una struttura molto più sofisticata di quanto sembri a un primo sguardo. Game of Thrones non racconta mai davvero la storia di un singolo eroe, ma quella di un’eredità. Ned Stark non è il protagonista nel senso tradizionale del termine, bensì il punto di origine di una frattura narrativa che si irradia su tutti i suoi figli. La sua morte non chiude un arco, lo moltiplica.

Già nel primo episodio, la serie semina con precisione chirurgica i suoi temi centrali. La scena dell’esecuzione del disertore dei Guardiani della Notte non serve solo a definire il carattere di Ned, ma a trasmettere una lezione fondamentale, soprattutto a Bran. Ned spiega che chi pronuncia una sentenza deve avere il coraggio di eseguirla in prima persona. È una lezione sul potere, sulla responsabilità e sulle conseguenze delle scelte. Una lezione che tornerà, in modo tragicamente ironico, quando Joffrey Baratheon decreta la morte di Ned senza sporcarsi le mani.

Questo parallelismo non è casuale. La prima stagione lavora costantemente per spostare l’attenzione dello spettatore: ciò che sembra centrale è in realtà una distrazione. L’attentato a Bran, la sua caduta e la paralisi diventano elementi narrativi potentissimi, ma servono anche a preparare il terreno per l’evento che davvero ridefinisce la serie. Quando Ned muore, l’universo di Game of Thrones si frantuma, e con esso la struttura tradizionale del racconto.

Da quel momento in poi, la serie abbraccia pienamente una narrazione corale. Ogni personaggio diventa, a turno, il centro della storia. Jon Snow, Arya, Sansa, Daenerys: ciascuno porta avanti un arco che non è mai subordinato a un “vero” protagonista. Anche Daenerys, inizialmente relegata ai margini del racconto e lontana da Westeros, cresce in parallelo, ignorata dai giochi di potere fino a diventare una minaccia globale. La serie insegna allo spettatore a spostare continuamente il proprio punto di riferimento.

Questa struttura ha avuto un impatto profondo sulla televisione successiva. Game of Thrones ha dimostrato che una serie può prosperare anche distruggendo le certezze del pubblico, che la perdita di un personaggio chiave può rafforzare — e non indebolire — l’interesse narrativo. Ha reso la morte imprevedibile, la serialità più crudele e, soprattutto, più adulta.

Alla luce di tutto questo, persino il finale con Bran Stark sul Trono di Spade appare meno improvvisato di quanto molti abbiano sostenuto. Le basi sono tutte nella prima stagione, nascoste dietro la figura ingannevole di Ned Stark e dietro una regola infranta con brutalità chirurgica. Game of Thrones non ha solo ucciso il suo protagonista: ha riscritto le regole della televisione moderna, costringendo il pubblico a guardare le serie con occhi completamente nuovi.

Fonte: CBR

 

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