BOLZANO. A Schladming organizza la stagione invernale di spettacoli per la Hohenhaus Tenne, uno degli après ski più grandi d’Europa. Per l’occasione, e in prospettiva di suonare musica di fronte a oltre 51.000 persone, il deejay Rudi Wilhelm ha scavato a fondo nella sua collezione di dischi per selezionare alcuni dei successi più iconici dagli anni ’90 a oggi.

Rudy MC è il nome d’arte del dj bolzanino 43enne che da anni gira il mondo con la sua console e fa musica tanto per eventi intimi quanto per grandi palchi. Nella sua carriera ha attraversato prima l’era del vinile, poi quella del digitale e oggi si avvale anche dell’Intelligenza Artificiale.

«Ogni epoca ha le sue trasformazioni, che bisogna saper cogliere e cavalcare», spiega. Nel corso degli anni ha diviso il palco anche con star come David Guetta, mentre la passione per la musica elettronica è un lascito del padre. Dj dal respiro internazionale, quest’anno Rudi ha aperto i concerti europei dei Backstreet Boys in tour con “Millennium 2.0”.

Rudy MC, da dove nasce il suo nome d’arte, che per un dj è anche il biglietto da visita?

«Mi è stato dato da un altro dj bolzanino. All’inizio della carriera non era facile esordire nelle discoteche, quindi mi sono trovato a fare il vocalist, Master of Ceremonies. Ecco quindi le iniziali MC, che richiamano alle note battaglie rap americane».

La passione nasce da?

«Da mio padre, dj storico dell’après ski. Quando mezzo secolo fa in Alto Adige sono arrivate le prime discoteche, lui era in pole position».

Dall’era dei dischi a quella del digitale, come è cambiata la sua musica da discoteca?

«Come il modo di vestire e di mangiare: tutto evolve. Senza entrare troppo nel tecnico, una volta nel mio settore l’arte era mettere in battuta due dischi, ovvero saper tarare la velocità. Oggi questa operazione è facilitata dalla tecnica. Ora ci sono altre possibilità connesse al mio lavoro, sul quale bisogna lavorare molto. Devo essere veloce e dinamico, operare su tre o quattro tracce allo stesso tempo. È un’altra arte. C’è anche il lavoro a casa, cioè sistemare gli ingredienti per il mix finale».

Quali sono state le sue prime esperienze come dj?

«Ho iniziato nelle feste all’inizio del secolo: le classiche feste studentesche, poi il grande passo al Baila di Appiano, nel 2002. Sono stato il primo dj del Baila, un disco pub presto diventato discoteca».

Il rapporto con il pubblico è cambiato?

«Sì, soprattutto tra il 2007 e il 2009, quando ho iniziato a diventare internazionale. Poi ci sono stati momenti diversi, come il Covid del 2020. Da casa gestivo un podcast giornaliero dove invitavo ospiti internazionali: per un’ora si parlava del settore delle discoteche e dell’intrattenimento. C’era molta insicurezza e non si sapeva cosa ci avrebbe riservato il futuro».

Si dice che ci si stia dimenticando delle discoteche: perché?

«Le discoteche non soddisfano più i nostri bisogni come una volta. In passato andavi in discoteca e aspettavi il tuo pezzo preferito. Oggi vai su una piattaforma e soddisfi immediatamente quel bisogno. Andavi in discoteca per conoscere gente, oggi ci sono i cellulari e i social: momenti di incontro h24. Non ci si dà più appuntamento in discoteca ogni fine settimana».

E allora, dove si va?

«Ci sono situazioni intime, molto gettonate, oppure grandi festival come il Tomorrowland, dove vai anche per dire che ci sei stato. Poi ci sono le feste après ski, soprattutto in inverno».

L’Intelligenza Artificiale come ha modificato il suo lavoro?

«Le faccio un esempio: recentemente ho avuto tre spettacoli da 100 minuti ciascuno. La produzione musicale e la selezione sono state fatte da me, ma la sezione video, ciò che mostriamo sugli schermi, per l’80% è prodotta dall’IA. È una risorsa che velocizza tutto. Prima servivano dieci persone, oggi ne bastano tre. Se hai bisogno di una voce che annuncia qualcosa, fai tutto con l’IA. Una volta dovevi registrare in studio. Il punto è saperla usare. Si ricorda la canzone “Video killed the radio star”? Le cose cambiano, ma non uccidono. Oggi non suono come nel 2002: l’IA integra il mio lavoro».

Tornando al discorso delle discoteche, oggi vediamo locali più piccoli e un rapporto meno duraturo con il pubblico. In passato suonavi magari sempre nello stesso posto, conoscevi chi entrava e usciva e sapevi quali fossero i cosiddetti cavalli di battaglia da suonare.

Oggi invece?

«Nel mio caso, facendo più serate uniche di booking, come si dice in gergo, piuttosto che di residency, posso instaurare un feeling magari più superficiale con il pubblico. Però la gente ti conosce anche attraverso i social media. Tutto cambia, ma nascono nuove possibilità».

Preferisce esibirsi davanti a una moltitudine o in location più intime?

«Guardo al feeling. Non è la festa più grande a essere per forza la migliore. In uno stadio il rumore di fondo di 40.000 persone crea un ronzio: tutti parlano e non riesci a interagire con la singola persona. È bello lo stadio imponente, ma anche suonare in una location da 100 persone, dove si crea un contatto diretto, dà grande soddisfazione. Mi piace cavalcare l’onda dell’intimità, a prescindere dal numero di spettatori».

Ci racconta l’esperienza con i Backstreet Boys?

«È stato il mio primo show così interattivo con così tanta gente. Dal 2007 mi occupo della programmazione artistica di una discoteca di Schladming e mi è venuta l’idea di creare uno show di apertura interattivo per lo Sky Opening, partito proprio nel 2007. Abbiamo coinvolto il pubblico in modo moderno: a un certo punto abbiamo interrotto la musica per una gara di sci digitale, controllata dal pubblico su uno schermo di 36 metri. Abbiamo fatto zapping su un televisore con sigle di telefilm del passato e un karaoke con 17.000 persone su musiche di Robbie Williams. Il freddo della serata è svanito».

Il 2025 sarà un anno indimenticabile?

«Sì, soprattutto considerando che, come già nel 2023, ho suonato al Donauinselfest di Vienna, una delle manifestazioni più grandi al mondo».