di
Massimo Gaggi

I big dell’intelligenza artificiale, la corsa delle borse mondiali e le paure di una crisi come nel 2000. Dall’ottimismo di Bezos al monito di Pichai, cosa pensano i protagonisti

In un anno dominato dalle guerre, dal caos dei dazi di Trump e dalla paura dello scoppio della bolla dei titoli tecnologici, le borse del tutto il mondo sono andate al galoppo. Quando mancano due sedute alla chiusura del 2026, il record è di Seul con +72%, ma anche Milano (+32%) è cresciuta molto: più di Francoforte (22), Tokio (27) e Shanghai (18). In apparenza più moderati i mercati Usa: +22% il Nasdaq, mentre l’indice S&P delle 500 maggiori imprese cresce del 17,8% e il Dow Jones del 14,5%.

Gli ottimisti

Chi crede che il trend positivo continuerà anche nel 2026 vede in questi numeri la conferma che si sono diffusi timori eccessivi. Per loro la bolla a Wall Street non è stata quella dell’eccessiva crescita dei titoli dell’intelligenza artificiale (AI) a fronte di modelli di business ancora indefiniti e prospettive di redditività lontane nel tempo: la vera bolla è quella della paura. Citano, a sostegno delle loro tesi, anche il fatto che, stando agli annunci, l’anno che si sta per aprire sarà quello del record degli ingressi in borsa di nuove società americane: si delineano offerte pubbliche di acquisto (Ipo) di aziende che verrebbero valutate complessivamente 2.900 miliardi di dollari, una cifra molto superiore a quella del Pil italiano. E un 2026 di crollo delle Borse non sarebbe di certo adatto a questi collocamenti. Si può, allora, guardare con fiducia a una continuazione del trend positivo? 



















































L’ottimismo è una buona cosa ma va gestito stando coi piedi per terra: i rischi non vanno sopravvalutati ma nemmeno ignorati. Prima notazione: le Borse più euforiche hanno risentito di fenomeni particolari. Quella coreana della ritrovata stabilità politica dopo il mezzo colpo di Stato tentato dal suo ex presidente, mentre in Italia ha pesato l’apprezzamento dei titoli delle imprese della difesa nella previsione di un’espansione delle spese militari. Quanto agli Stati Uniti, la crescita del 2025 segue a quelle, sempre a due cifre, degli anni precedenti. Bastano le promesse di sviluppo e guadagno di produttività legate all’AI per continuare ad alimentare questo lunghissimo ciclo positivo?

Cosa dicono i big

Partiamo dalla constatazione che la bolla c’è, è reale. Lo dicono in tanti, dalla Federal Reserve alle maggiori banche come JP Morgan Chase, ma lo ammettono gli stessi capi delle imprese che l’hanno generata. Per Jeff Bezos di Amazon è benigna: se scoppierà, si lascerà, comunque, dietro infrastrutture informatiche che consentiranno di alimentare ulteriori progressi in campo tecnologico. Il capo di Alphabet Google, Sundar Pichai, avverte che una rottura della bolla avrebbe conseguenze per tutti, anche per i gruppi più solidi. Come, appunto, Google. Riconosce l’esistenza della bolla anche Sam Altman che, pure, ha annunciato investimenti per ben 1.500 miliardi di dollari. Secondo il capo di OpenAI, l’azienda al centro di tutti i giochi finanziari, c’è una sovraeccitazione degli investitori per l’AI, un clima simile a quello che precedette lo scoppio della bolla tecnologica del 2000. Ma prevede guai soprattutto per le troppe start up nate in questo clima euforico. L’unico «negazionista» di rango è Jensen Huang di Nvidia.
Insomma, la bolla c’è ma non è detto che sia destinata a scoppiare. Chi si prepara al peggio vede nel S&P 500 Shiller Cape Ratio una sentenza più che un monito: l’indice, che misura il prezzo delle azioni in rapporto ai profitti aziendali in un arco di 10 anni, è arrivato a un valore elevatissimo, 39,42. C’è solo precedente storico: la bolla dot.com deflagrata nel 2000. 

Ma ci sono differenze: allora fallirono soprattutto start up fragili e che non producevano reddito. Oggi l’eventuale crisi dovrebbe partire dalle «Magnifiche 7»: i giganti del digitale che stanno rischiando molto ma, salvo Oracle, generano anche grossi profitti. Il crollo di uno di questi probabilmente si trascinerebbe dietro tutto il listino anche perché i 7 big, da soli, valgono un terzo della Borsa Usa. Altro elemento critico è la natura circolare di molti affari nell’AI: imprese come Nvidia, Microsoft e Google investono in OpenAI e similari che poi spendono i fondi ricevuti per comprare chip e spazio nel cloud dai loro stessi finanziatori. Un circolo chiuso molto pericoloso in caso di collasso di qualche elemento del sistema.

Il ruolo di Trump

Ma se nel 2008 Bush, dopo aver lasciato fallire Lehman, salvò le altre banche e le assicurazioni (da allora di parla di gruppi too big to fail, troppo grandi per lasciarli fallire), Trump, ben più interventista, farebbe di tutto per puntellare imprese non solo enormi ma strategiche per l’America. Per di più in un anno elettorale. Si guarda al presidente anche per il costo del denaro il cui calo è stato essenziale per la tenuta della Borsa. Tra qualche mese Trump avrà il pieno controllo della Fed: cercherà di imporre cali ancora maggiori. Sarebbe musica per le Borse. Ma il denaro a buon mercato potrebbe riaccendere l’inflazione: un disastro per i repubblicani, in vista del voto. Insomma, il rischio rimane ma questa bolla non è solo finanziaria, di carta: è fatta di investimenti industriali forse eccessivi, ma concreti.

27 dicembre 2025