di
Davide Soattin

La piccola paziente del dottor Vincenzo Gallucci non aveva neanche 15 anni: «Senza quell’operazione sarei morta in pochi mesi. Ho sofferto d’ansia, oggi sto bene. So chi mi ha donato l’organo, ma non ho mai voluto incontrare la famiglia»

Trentotto anni fa, il 24 marzo 1987, all’ospedale di Padova, la medicina italiana scriveva una pagina di storia: per la prima volta, grazie all’equipe medica del professor Vincenzo Gallucci, una ragazzina veniva sottoposta a un trapianto di cuore in età pediatrica. Era l’adolescente ferrarese Elisabetta Nobili, affetta da una miocardiopatia dilatativa. Oggi quella bimba è una donna: ha 53 anni e abita a San Giorgio di Piano, in provincia di Bologna, dove continua a vivere «normalmente» la propria vita come lei racconta, seduta al tavolo di un bar mentre sorseggia un caffè macchiato, ripercorrendo passo dopo passo le tappe della propria incredibile vicenda.

Elisabetta, quand’è che venne a conoscenza di dover fronteggiare una grave problematica cardiaca?
«Pensano che io sia nata sana e che a un anno e mezzo abbia contratto la malattia. Tutto iniziò con una forma di tosse forte, importante. I miei genitori mi fecero visitare da alcuni specialisti, ma non guarivo e nemmeno miglioravo. Quindi decisero di fare affidamento all’ospedale di Padova, dove scoprirono l’esistenza di un virus che aveva attaccato il mio cuore, sviluppando la miocardiopatia dilatativa».



















































Quali conseguenze provoca questa patologia?
«In pratica l’organo si ingrossa sempre di più e, quando batte, va a sbattere contro gli altri organi».

I medici dissero quindi a mamma e papà che era necessario un trapianto.
«Portai avanti la problematica fino ai 13 anni, poi il dottor Pellegrino, che mi seguiva, disse ai miei genitori che l’unica via di uscita era il trapianto. A 10 anni ebbi un’embolia e smisi di andare a scuola. Il mio quadro era andato degenerando. Ero diventata sempre più magra e pallida. Non potevo fare nulla, nemmeno andare al mare, perché mi agitavo, o in montagna perché mi stancavo. Solo qualche volta andavo al lago».

Rischiava la vita?
«Senza il trapianto, mi davano ancora pochi mesi».

Se lo ricorda il giorno in cui da Padova avvisarono che era arrivato il momento per il trapianto?
«Certo. Mi ricordo che, quando arrivò la telefonata a casa, andai io a rispondere. Ovviamente fu un trauma anche se, in parte, ero preparata. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato quel momento. ‘Elisabetta, è arrivato il tuo cuore’ mi dissero dall’altra parte della cornetta. Rimasi scioccata, poi chiamai nonna che era con me in quel momento. Fu lei ad avvisare mia mamma e in poche ore arrivarono a prendermi con l’ambulanza».

Vada avanti.
«Mi ricordo che, quando arrivai a Padova, mi prepararono. Mi lavarono, mi misero un camice e mi diedero una pastiglia per tranquillizzarmi. L’ultimo ricordo è quello di una punturina che mi fecero sul sedere, poi mi addormentai».

Quanto durò l’intervento?
«Da mezzanotte fino alla mattina dopo, sette o otto ore».

Filò tutto liscio?
«Subito dopo il trapianto ci fu un po’ di rigetto, ma proprio poco. Uscita dalla sala operatoria mi misero in una stanza asettica dove rimasi per una settimana. Forse per via della mia paura, che probabilmente arrivò a materializzarsi, il giorno successivo al trapianto ricordo di aver visto la morte che mi voleva prendere. Era di fianco al letto, aveva il mantello nero e la falce come nei fumetti. Fu un’immagine talmente nitida e reale che anche tempo, quando andavo a dormire, avevo il timore di rivederla».

Mamma e papà furono messi a dura prova.
«Sì. Fecero i pendolari per l’intero mese in cui rimasi ricoverata. Mamma però venne poche volte, perché doveva restare a casa con Francesca, mia sorella minore. Papà invece c’era sempre. Tutte le volte che entravo in ambulatorio volevo che ci fosse lui con me. Mi teneva la mano, mi faceva stare tranquilla anche durante i vari esami. È stata la mia figura portante in quel periodo».

Ha avuto modo di conoscere il nome, la storia o i familiari di chi le ha donato il cuore?
«So che la mia donatrice si chiamava Maria Grazia, aveva 13 anni e abitava a Segrate, in provincia di Milano. Morì in un incidente domestico, scivolando in casa. So che i nostri genitori si conoscono e che i suoi, dopo l’intervento, vennero a trovarmi in ospedale. Ancora oggi, i miei genitori inviano loro dei fiori in occasione dell’anniversario della sua morte, e io li ricevo da loro per il mio compleanno. Per il mio matrimonio, mi mandarono persino un bigliettino».

Però non li ha mai conosciuti.
«Io volevo conoscerli, l’ho detto tante volte. Avevo il desiderio. Poi, non so perché, forse col tempo e anche con l’aiuto della mia psicologa, ho maturato l’idea di non volerli conoscere per non scatenare in loro dei ricordi che potrebbero fare male, rischiando di andare ad aprire alcuni cassetti che, magari, già sono stati chiusi durante la fase dell’elaborazione del lutto».

Oggi, a distanza di quasi quarant’anni da quel trapianto, come procede la vita?
«La mia vita procede normalmente. Continuo a prendere il farmaco antirigetto, anche se mi hanno detto che potrei smettere. Già due o tre anni fa, il mio medico mi ha spiegato che ormai l’organo è completamente mio: le cellule non lo riconoscono più come un corpo estraneo, ma come parte di me. E questo mi ha sbloccato un mondo».

Cioè?
«Dopo il trapianto ho vissuto un periodo in cui credevo di non essere uguale agli altri. Avevo dentro di me qualcosa di non mio, quello che consideravo un intruso. Come se mi avessero privata di una parte di me per darmene una non mia. E quindi non mi sentivo affatto a mio agio. Ero agitata per ogni cosa e qualsiasi malanno di salute lo riconducevo al trapianto. Ora invece ho cambiato il punto di osservazione».

Si sente più sicura?
«Adesso quel cuore lo sento mio, è il mio preferito. Certo, devo fare qualche check-up di routine, ma posso fare la mia vita in maniera tranquilla. Spero di andare avanti sempre così. Anzi, di migliorare».

Quale consiglio darebbe a chi deve affrontare un percorso simile a quello che ha affrontato lei?
«Innanzitutto, farsi seguire da uno psicologo, sia nel pre che nel post-operatorio. È davvero molto importante, non solo per il paziente, ma anche per la famiglia. Aiuta ad affrontare diversamente il percorso ed evitare che si creino delle immagini o delle idee sfasate e distorte rispetto a quella che è la realtà dei fatti».

Fu così per lei?
«I miei genitori mi hanno voluto bene, ma mi hanno protetta troppo. Hanno fatto tutto loro per me, non abituandomi al mondo. È successo anche che avessi dovuto dire qualche bugia per non farli preoccupare e conquistare un po’ di autonomia. Forse perché era un altro periodo e ancora non c’era consapevolezza su come gestire situazioni di questo tipo. Tutto ciò mi creò molta ansia, e solo da qualche anno, grazie alla psicoterapia, ho iniziato ad acquisire più fiducia in me».
 
Altri consigli?
«Poi ovviamente dico di fidarsi dei medici. Ancora oggi sono legatissima ai dottori che mi hanno operato: Ugo Livi, Giuseppe Faggian, Alessandro Mazzucco e Giovanni Stellin, componenti dell’equipe pediatrica del professor Vincenzo Gallucci. Sarò per sempre grata a loro per tutto quello che hanno fatto per me. Mi hanno salvato la vita, e non è poco. Così come sono molto legata alla caposala, suor Tiziana, e a Roberta, un’infermiera dell’ospedale di Padova».

Se la sente di lanciare un appello?
«La donazione è importante, donare gli organi è importante. Con una vita sola se ne possono salvare almeno otto. È questo l’appello che voglio lanciare».


Vai a tutte le notizie di Padova

Iscriviti alla newsletter del Corriere del Veneto

28 dicembre 2025 ( modifica il 28 dicembre 2025 | 08:16)