di
Andrea Galli
Decine di aziende in campo per costruire palazzi, ristoranti, centri commerciali, banche e ospedali, banche, negozi. «Qui sembra Berlino dopo la guerra»
I blackout sono frequenti, prolungati, catastrofici. D’estate e anche oltre. Perfino a ridosso dell’inverno. Quando a luglio e in agosto i gradi sono cinquanta e i condizionatori fuori uso, siccome in casa non si può stare — nemmeno fuori in verità — e siccome la benzina è pressoché gratuita, roba di centesimi al litro nella Libia al settimo posto della classifica dell’Organizzazione degli esportatori di petrolio, allora tutti quanti salgono in macchina. Sui pick-up, necessari per resistere a buche-crateri, strade sterrate nell’alveo di fiumi in secca, dossi di muratura dall’altezza esagerata.
Un popolo a girare. Investito dall’aria condizionata.
Pure all’alba. La luce già asciutta, il cielo già sgombro, la terra verso il deserto color fuoco.
Arriviamo a Bengasi da Fiumicino, in un periodo di fresco, a mezzogiorno. L’aereo, comodo, è stato quello dei maltesi «MedSky» (imminente l’acquisizione di un libico); il promesso collegamento diretto da Malpensa viene rinviato, «Ita Airways» non è convinta o meglio non lo sono i tedeschi principali azionisti della compagnia aerea. Strategie differenti in Africa e Medioriente. Ognuno ha la propria geografia. In quella bengasina non si può rallentare. Un cantiere ogni cinquanta metri. Costruiscono grattacieli, ristoranti, centri commerciali, caserme, ospedali, banche, negozi. Edifici da riempire d’ogni elemento: tubature, infissi, arredi, cucine, bagni, tetti, e via (in enorme abbondanza) elencando.
Di conseguenza, forniture da pubblicizzare, scegliere, commissionare, pagare.
A proposito di quest’ultima voce, un disagio permanente: niente bonifici, manco funzionano le carte di credito, soltanto cash, si viaggia con valigie zeppe — zeppe — di contanti.
Immagini antiche su certi voli da e per Istanbul: due, tre borsoni a testa parimenti gonfi di banconote ficcati sotto il sedile, sopra, tenute addosso.
Proseguiamo per la città. Camion, gru, carpentieri all’ombra in attesa passino i caporali a caricarli sul furgone. Sabbia fluttuante dal deserto, entra nei vestiti, nei capelli, negli occhi.
L’Italia c’è, nel circuito di imprenditori in trasferta in Libia. E tanto. Fenomeno recente. Gli imprenditori scommettono sul futuro di stabilità. E c’è tanta Milano. A sfruttare l’equivalente dei 12 miliardi di euro nel portafoglio del «Fondo per la ricostruzione della Libia» gestito dalla famiglia Haftar, che governa le operazioni fondiarie e immobiliari.
Anzi, gestito da Belgassim Haftar, uno dei figli del generale amico-nemico di Gheddafi, 83 anni, malato e mai domo, che fu esule negli Usa, quindi rimpatriato per far cadere il rais medesimo. Poi baluardo contro l’Isis. Missioni riuscite. Le dietrologie legate ai successi di Haftar (in foto vestito con l’eterna uniforme kaki sui mega manifesti nelle strade, come Castro a Cuba) innescano centinaia di pensieri. Contano i fatti. Anche se andrebbero analizzati, indagati, i profili dei figli. Di alcuni perlomeno. Il circuito del denaro. In Libia si susseguono violazioni dei diritti. Sistematiche.
Spariscono contestatori. E la capitale Tripoli non cambia: bande e predoni, disordine e pericoli, attentati. Ma Bengasi però cambia. Metamorfosi completa. Ora, ogni momento ha la sua storia: un secolo fa, un gruppetto di cronisti fascisti lombardi affollava la redazione del giornale Cirenaica nuova, voce degli italiani della Cirenaica, la regione che comprende Bengasi; adesso, s’intende rivoluzionando lo scenario, ecco gli imprenditori.
Costoro han cominciato a esplorare Bengasi nel «Forum economico» di giugno organizzato dall’instancabile Nicola Colicchi, presidente della Camera di commercio italo-libica. Un centinaio di aziende (Colicchi: «Godiamo di estrema fiducia; la prossima sfida? Andare nel lontano Fezzan, piantare radici anche lì»).
Imprese d’ogni settore. Nomi noti: «Repco Milano», attiva nella consulenza tecnica; «SaluberMd», servizi sanitari; «Englobe», meccanica. E Ducoli Achille», azienda bresciana di bonifiche e demolizioni. Gli interventi che servono. Parecchio. I quartieri a ridosso di porto e università (70 mila studenti e un master col Politecnico) sono le aree segnate dalla devastazione bellica. Cantieri il giorno e la notte, il sabato e la domenica. Muratori, idraulici, falegnami (in misura assoluta migranti palestinesi, siriani, egiziani, sudanesi) non bastano. E poiché un gran numero di libici non intende faticare, perseverando nel campare con gli aiuti di Stato, alla maniera del reddito di cittadinanza, gli imprenditori inseguono la manodopera.
Bengasi è una terra di pace. Durerà? Ai manager di Turchia ed Emirati arabi uniti non interessa. Sono padroni dei maggiori cantieri di rigenerazione urbana. Incassano, fine. Dal dicembre 2024, Bengasi ha preso centomila abitanti (s’avvicina al milione, un record). Lo sviluppo dei piani degli architetti spinge la città in verticale. Aziende lombarde sono impegnate nel nuovo aeroporto che figura nei contratti del gruppo albanese «Rfae» (ingegneria avanzata, partnership con l’Ente italiano per l’aviazione civile); appartiene a due cognati, ci ripetono il vantaggio di lavorare coi libici, «competenti e rapidi».
Il console Francesco Saverio De Luigi, un uomo colto e moderato, mostra dei video sul cellulare. Riprese della città. Macerie. «Brevi spezzoni degli anni scorsi. Immagini identiche a quelle di Berlino dopo la guerra. Bengasi ha patito, in pochi sanno quanto».
agalli@corriere.it
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29 dicembre 2025 ( modifica il 29 dicembre 2025 | 08:12)
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