di
Federico Fubini

Le imposte di Trump in media al 12%, ma finora ha funzionato poco di ciò che prevedeva il presidente: sale il timore delle tensioni interne. Mentre l’Ue punta a colpire i beni prodotti con l’emissione di gas serra

ll 2025 è stato l’anno dei dazi americani, ma il 2026 inizia sotto il segno di quelli europei. Saranno diversi, più limitati, pensati per proteggere un bene collettivo del pianeta quale il clima e non per punire esplicitamente altri Paesi. Ma arriveranno, da dopodomani: il Cbam, sigla inglese per il «Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere», da gennaio colpisce l’import di prodotti extra-europei generati attraverso l’emissione di gas a effetto serra. Per ora riguarda solo materiali in cemento, ferro, acciaio, alluminio e i fertilizzanti, più elettricità e idrogeno da Paesi terzi (i più interessati saranno Cina, Turchia e India). Il prelievo, variabile secondo il contenuto inquinante, pesa su circa 100 miliardi di euro di beni comprati fuori dall’Unione europea.

Non è protezionismo, in teoria. Il Cbam cerca solo di imporre sui concorrenti globali delle imprese europee gli stessi balzelli che queste subiscono già sulle loro produzioni inquinanti, decisi per spingerle a ridurre le emissioni. Ma almeno per un aspetto il nuovo dazio deciso a Bruxelles assomiglia a quelli di Donald Trump, perché aumenta i costi per centinaia di migliaia di imprese. Rincareranno le viti, i bulloni e i pezzi in acciaio importati dall’estero di macchinari fatti in Veneto o in Baviera. Alcune di queste imprese potrebbero decidere di spostare parte delle produzioni in Cina, Turchia o India per risparmiare sulle componenti e da lì affrontare i mercati mondiali.



















































In questo davvero i dazi rischiano di generare un’eterogenesi dei fini, come il presidente degli Stati Uniti ha iniziato a sperimentare negli ultimi mesi. L’aumento dei prelievi doganali avviato con il «Liberation Day» del 2 aprile scorso (da allora il dazio medio effettivo è salito da circa il 2% al circa il 12% medio) riguarda per meno di metà beni di consumo come il vino italiano; ma per il resto i prelievi di Trump colpiscono e rendono più cari materiali che entrano nelle filiere industriali americane.

Il questo il fallimento del disegno di rilancio della manifattura negli Stati Uniti inizia già a profilarsi. E il 2026 si annuncia come l’anno in cui esso diventerà evidente. Osserva Penny Naas, ex funzionario del dipartimento del Commercio di Washigton oggi al German Marshall Fund: “Per ogni 10 mila posti che creiamo nelle acciaierie grazie alle tariffe salite al 50%, ne perdiamo fra 175 e 200 mila nelle attività della manifattura basate sull’acciaio stesso”.

Gli effetti stanno già venendo alla luce. Non solo l’occupazione industriale negli Stati Uniti ha perso circa 67 mila addetti (su oltre dodici milioni) da quando Trump è tornato alla Casa Bianca; soprattutto, gli investimenti manifatturieri hanno invertito la tendenza all’aumento continuo registrata nel quadriennio di Joe Biden e dopo i primi nove mesi del 2025 sono in calo di quasi il 12% rispetto a un anno fa. Gli imprenditori, per ora, non sembrano invogliati dai dazi a riportare le produzioni in America. Intanto, forse già a gennaio la Corte suprema potrebbe dichiarare incostituzionale l’uso dei poteri di emergenza con cui il presidente ha imposto i dazi aggirando il Congresso.

In sostanza, quasi niente sta andando
come aveva previsto il presidente né come alcuni dei suoi critici avevano temuto. In dollari, lo S&P500 di New York è il grande indice di borsa ad aver guadagnato di meno fra i tredici principali del mondo. L’inflazione americana non è esplosa a causa dei dazi — come si temeva — ma dal «Liberation Day» in poi ha ripreso a salire abbastanza da indurre Trump a ritirare alcune tariffe agricole (in particolare sull’America Latina). Il tycoon teme che i rincari doganali dei beni alimentari aggravino le tensioni per il costo della vita e spingano verso i democratici alcuni dei suoi elettori a reddito più basso. Nel 2026, con l’avvicinarsi delle elezioni di mid-term, arriveranno probabilmente altre retromarce sui dazi legati ai beni decisivi per l’economia domestica di milioni di americani.

Anche la reazione del resto del mondo si sta rivelando molto diversa da quella che i critici di Trump, in particolare, temevano. La risposta non è stata una replica della crisi internazionale di 90 anni fa. La stretta protezionista dello Smoot-Hawley Act del 1930 portò a ritorsioni doganali di decine di Paesi contro gli Stati Uniti e a un collasso del commercio mondiale. Stavolta invece alla stretta di Trump gli altri Paesi reagiscono in modo diverso: niente ritorsioni, ma accordi commerciali vicini o già in vigore fra Unione europea e Mercosur, fra Ue e Messico, fra Gran Bretagna e India e avvicinamento del Canada a Cina e Indonesia. Gli altri Paesi isolano l’America e permettono al commercio mondiale di continuare a crescere mentre Trump si sfila.

Non tutto però va nel migliore dei modi. Con i dazi la Cina vede il suo export verso gli Stati Uniti crollare del 19% e scarica i suoi eccessi di produzione sull’Europa. Bruxelles sta già reagendo contro Pechino con tariffe protettive su batterie, auto elettriche, componenti in acciaio, pneumatici e vari altri prodotti. Proprio negli ultimi giorni è arrivata la ritorsione cinese, contro i nostri formaggi. Il 2026 potrebbe essere l’anno della tensione commerciale, crescente, fra Pechino e Bruxelles.

29 dicembre 2025