di
Gaia Piccardi

Intervista al numero 7 del mondo: «Io a Ballando come Fognini? Preferisco MasterChef o Pechino Express. Sinner è cinico e spietato, è una roccia perenne come ritmo e intensità»

Fine anno, è tempo di migrare. Il primo gennaio, infilate in valigia le certezze conquistate nel 2025, il nuovo Lorenzo Musetti decolla verso Hong Kong, primo passo dentro la stagione che vorrebbe lo confermasse nell’attico del tennis mondiale, possibilmente top 5. Il Natale con un regalo speciale sotto l’albero — Leandro nato il 29 novembre, a ridosso della riconquista della Coppa Davis dell’Italia senza Sinner né Musetti —ha scaldato il cuore a Lorenzo; anche l’off season a Montecarlo ha riservato l’ingresso nel team di una figura in più: José Perlas affianca lo storico coach Simone Tartarini. L’obiettivo è spingersi oltre le colonne d’Ercole delle semifinali a Parigi e Wimbledon, qualificarsi alle Atp Finals per tempo, e molto altro. Non mancano gli argomenti, con il n.7 del ranking.

Con quali pensieri in testa si riparte, Lorenzo?
«Con la voglia di rimettersi in gioco e con la convinzione che sia stata una off season di cambiamenti. Perlas aiuterà me e Simone a sviluppare i lati migliorabili del nostro lavoro. Ci siamo occupati di tecnica ma anche di nutrizione e fisico. Avevo l’esigenza di prendere del tempo per me stesso, uno dei motivi per cui ho rinunciato alla Davis».



















































Per capire cosa?
«La ragione degli infortuni, per esempio. Ho fatto visite, analisi, indagini: ora ho più chiari i miei parametri e i miei limiti, poi certo la palla la devi sempre buttare di là».

Scegliere una figura come Perlas significa puntare soprattutto sul rosso?
«Ma no, perché? José ha portato tutti i suoi giocatori al best ranking, aprendo orizzonti su qualsiasi superficie. Certo è spagnolo, cresciuto sulla terra, ma è una persona di grande esperienza. La fase iniziale è stata tra noi due: ci siamo parlati a lungo, e le idee combaciavano. Speriamo non serva troppo per metabolizzare il cambiamento».

Parte per Cina e Australia con tutta la famiglia?
«Parto con Simone e Josè. Un mese via insieme per trovare l’alchimia. Veronica e i bimbi restano a casa: non li vedrò fino a febbraio. Purtroppo alla lontananza sono abituato. Leandro ha tolto il sonno soprattutto alla mamma: io, allenandomi, non posso permettermi di non riposare. E Veronica è bravissima a non farmelo pesare».

Come si fa perdonare?
«Cucino, mi piace e mi rilassa. E poi pulisco i fornelli (Veronica ride in sottofondo, ndr). Il mio cavallo di battaglia è il risotto. Vorrei essere più bravo: se avessi più tempo prenderei lezioni di cucina».

Perché iniziare proprio a Hong Kong?
«Perché è un torneo piccolo, che conosco, perfetto per spezzare il viaggio verso l’Australia e per rompere il ghiaccio. Non gioco in torneo dall’ultimo match del girone con Alcaraz alle Finals. È tanto».

I progressi sul veloce che l’hanno portata a Torino li considera metabolizzati?
«Spero proprio di sì. Vorrei ripartire forte già in Cina e a Melbourne. Vorrei che fosse il miglior inizio di stagione della carriera. Però il tennis dà poche garanzie: ogni giorno te lo devi creare daccapo. Una off season pazzesca può rivelarsi un castello di carte. A pagare è la costanza: nel 2025 i miei bassi non sono mai stati troppo bassi. È un bene».

Come si spiega il paradosso musettiano, Lorenzo? Con Alcaraz è il talento con più tennis nel braccio, però per emergere lei è costretto a un lavoro supplementare.
«A questo livello, solo con il talento non vai da nessuna parte. Convivo con un dilemma, dentro di me: se fossi meno talentuoso ma con un altro carattere, cosa sarei diventato? Poi penso che sia meglio avere il mio talento e darmi da fare per migliorare il carattere. So che, se voglio fare il salto di qualità definitivo, devo lavorare sull’atteggiamento».

Per meritarsi le Atp Finals, è arrivato a Torino esanime.
«Ho fatto fatica a qualificarmi anche per gli infortuni che mi hanno condizionato, e che non devono accadere più. Però mi hanno dato lo stimolo per combattere: ho giocato per otto settimane di fila, prima di Torino. Una maratona. Ecco perché era così importante, dopo le Finals, fermarmi per indagare e capire. Poi c’era Veronica che stava per partorire Leandro, e io non volevo mancare».

Ma le Finals poi sono state come se le immaginava?
«Per le emozioni che ho vissuto, la vittoria su De Minaur è stato il match più esaltante della mia vita. Davanti a 15 mila spettatori e alla mia famiglia. Certo mi sarebbe piaciuto partecipare anche all’avvicinamento: la conferenza stampa, le foto di gruppo, il galà. Avrei voluto allenarmi, fare le cose per bene. Invece sono atterrato da Atene, ho provato il campo mezzora, ho giocato. Ed ero bollito. Mi è mancata gran parte del bello delle Finals, nel 2026 non dovrà più succedere».

Quest’anno ha giocato (e perso) una volta con Sinner e quattro con Alcaraz. Quale direbbe che è la differenza più netta tra il numero due e uno del mondo?
«La costanza e la continuità, le doti di Jannik. Sinner è cinico e spietato, è una roccia perenne come ritmo e intensità. Carlos ha alti celestiali, però se è nervoso o teso, diventa emotivo. E qualche chance te la offre. Poi devi essere bravo tu a coglierla».

Anche lei, come Alcaraz, è cresciuto sin da piccolo con lo stesso coach: crede che Carlitos avrà ripercussioni dopo il burrascoso divorzio da Juan Carlos Ferrero?
«È stato un fulmine a ciel sereno, davvero non me l’aspettavo, soprattutto a questo punto dell’off season. Io credo che nella separazione perdano entrambi. Non so se Carlos ne risentirà: ricordo che anche Jannik, quando lasciò Piatti, ha avuto una fase di mezzo; poi è decollato. Alcaraz non riparte proprio da zero: continua con Samuel Lopez, che già lo conosce».

Nel 2026 ragionerà su obiettivi di tornei o classifica?
«Nè l’uno né l’altro. Non mi piace mettermi obiettivi a lungo termine, nemmeno di mesi. Intanto voglio partire a razzo: d’abitudine, fatico a carburare. Dopo l’Australia andrò in Sudamerica. L’anno scorso mi ero fatto male: andrà evitato. Fino a Montecarlo, ho pochi punti da difendere. Dopo viene il bello, o il brutto. C’è il filotto di risultati nei tre Master 1000 su terra e al Roland Garros. Ma cambiare atteggiamento significa pensare che ogni torneo parto per vincerlo».

È la vita che sognava da bambino a Carrara?
«Beh, sì. Faccio il professionista del tennis, ho costruito una famiglia numerosa, mia, sin da giovane. Ho un team su cui posso contare e un gruppo di amici storici — tra noi ci chiamiamo l’allegra combriccola, ci conosciamo dalla scuola — a cui non importa se vinco o perdo: per me ci sono sempre, anche nei momenti bui. Non è facile coltivare le amicizie, facendo il tennista: ne vado fiero».

Ci sono controindicazioni? Si augura che Ludovico o Leandro seguano la sua strada?
«Vorrei essere un padre che consegna nelle mani dei figli il loro futuro. Spero che vogliano studiare: pagherò volentieri l’università e i viaggi, il modo migliore per capire come funziona il mondo. Non mi dispiacerebbe giocare il doppio in torneo, con uno dei miei figli: dovranno essere talenti precoci oppure io un altro Djokovic, e continuare fino a quarant’anni! Confermo che insegnerò loro il rovescio a due mani: l’estetica di quello a una mano è migliore, ma che fatica…».

Non so cosa augurarle. Magari un futuro da ballerino in tv, come Fabio Fognini.
«Ballare? Io? Aiuto… Meglio MasterChef o Pechino Express. L’avventura mi piace».

30 dicembre 2025 ( modifica il 30 dicembre 2025 | 07:08)