Jesi – Eugenio Finardi celebra alla grande i cinquanta anni dall’uscita del suo primo album, nel 1975.
Lo fa nel prestigioso e … caloroso (sta per caldo) Teatro Pergolesi, davanti a un pubblico enorme, con un cuore grandissimo, che sa riconoscere e dare al raffinato cantautore il trionfo che merita, in questo XXV° Festival Pergolesi Spontini. Anche senza il suo cappello d’ordinanza, Eugenio Finardi non delude mai.
Il suo laicismo personale nel raccontare emozioni e sensazioni che denotano interesse profondo e mai disinteresse, non gli fa attaccare i ricordi di cinquant’anni di musica al chiodo della vita che passa. Non gli interessa l’autocelebrazione ma, forse, soltanto una presa di coscienza che, per ciascuno di noi, un cerchio prima o poi si chiude. E prima di chiudersi, lui fa scorrere, come in un film in cui si passa dal bianco e nero al colore ancora grezzo, i momenti più intensi in cui ha dato il meglio di sé. In libertà, ecco, senza inchinarsi alle mode o alle meteore di cui dopo poco non ricorderai più nulla, ma con la consapevolezza che quando scriveva “Extraterrestre” era, insieme ai suoi compagni di viaggio, qualche passo avanti all’interpretazione della musica e dei testi che la narrano o, se volete, che l’arredano.
Perché forse, allora, sapeva che il “Futuro” ci avrebbe presentato il conto che si chiama Intelligenza artificiale, oggi, sotto certi aspetti ingestibile? Al contrario dell’intelligenza umana. Ormai s’è capito che “non esistono gli Extraterrestri / Che ci vengono a salvare / Ormai La mia unica speranza / È nell’Intelligenza Artificiale/ Potremo volare/ Con gli occhi dell’aquile e capire/ Il canto delle balene/ Entreremo in connessione/ Con l’Universo e il senso dell’Amore”.
Giuro, mi è venuta in mente, leggendo il testo, qualche assonanza ideale con “Futura” di Dalla, perché condividono alcune affinità tematiche e stilistiche. Il futuro fra speranza e incertezza. Ma senz’altro con mille possibilità di cambiamento, gestito attraverso metafore singole o collettive.
Non c’è stata nostalgia che serpeggiasse in platea, ogni singolo spettatore voleva testare, pensate a un sommelier, come il vino della botte buona si fosse perfezionato tanto da mettere un calice sotto la chiavetta e offrirlo agli ospiti o se non lo ritenesse adatto. Pensate che prima del concerto mi ero ascoltato tanti brani di Finardi, per studiare impressioni e anche affinità elettive con altri artisti. Sinceramente, quando ha cantato “Dolce Italia” mi è venuto in mente il tempo sbandato de “Una notte in Italia” di Fossati, col suo vento che ci prende alla schiena. Sono sensazioni, cancellatele se volete, ma mettere insieme testi e musica di questi due pezzi, può significare solo genialità intellettuale e creativa.
Non prendiamo ogni canzone, ci faremmo notte: diciamo soltanto che i fari che tagliavano l’affollato palcoscenico del Pergolesi non avevano la tonalità o l’effetto di luce che rievocasse un “mi ricordo” da attaccare, come dicevo all’inizio, al chiodo del fondale del teatro.
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La scelta delle canzoni esalta, fra il nuovo e il passato, la grande vena artistica di Finardi, quella che una volta lo collocava fra i maggiori sperimentatori del mondo musicale e faceva capire dove sarebbe andato a finire. Finardi, anche con Patrizia, La Radio, Musica Ribelle, Extraterrestre, ha cantato con un colore di voce e una intensità espressiva che, con l’età, sono migliorate.
Insieme al suo coautore e chitarrista Giuvazza Maggiore, alle tastiere e al basso Maximilian Agostini, alla batterria e percussioni Alex Pacho Rossi, ha chiuso il concerto, tra i bis, con La mano di uno che sa. .
Eugenio Finardi e Giovanni Filosa
Lui è un uomo, come qualcuno l’ha definito, condannato alla musica, uno che riconosce le brutture della vita, anche sulla sua pelle, quell’essere homo homini lupus, alla base delle teorie di ogni sporca guerra, rende omaggio ai suoi miti che gli vivono accanto. Ha visto Nina volare, ha amato Battiato, Stratos, ce li ricorda e, soprattutto l’ultimo omaggio lo invia a Miriam Makeba, intonando un breve ricordo di Pata Pata. Da dove, forse, è incominciato tutto.
Tranquillo, Eugenio, il leone non dorme stanotte…