Manca poco alla fine. C’è un uomo seduto sull’asfalto, solo e non ancora rassegnato, davanti a lui una muta di pasdaran a cavallo di motociclette nere. È la foto che racconta l’incertezza dell’Iran, quello che può accadere o quello che non sarà. Sembra una citazione di Tienanmen ma il destino è ancora aperto. Questo 2025 si chiude con un tramonto di rabbia e speranza. C’è un freddo che s’intrufola nelle botteghe chiuse, nei cortili delle case, nelle mani vuote di chi conta le banconote e scopre che non servono più a niente. Il rial cade a pezzi, come un castello di sabbia colpito dall’onda. Nel Gran Bazar di Teheran le serrande si abbassano una dopo l’altra. Non per paura, non più. Per protesta. È il gesto più semplice del mondo: chiudere. È anche il più devastante. Qualcuno ancora se lo ricorda: la caduta dello Scià è cominciata così, con il mercato vuoto, spento, perché non c’era più merce da vendere ai comuni mortali. Era il 16 gennaio 1979. Mohammad Reza Pahlavi fugge prima in Egitto e poi in Marocco. Spera invano di tornare. Il potere finisce nelle mani senza pietà degli ayatollah. Quella che un tempo si chiamava Persia si ritrova sotto la dottrina teologica dell’imam Ruhollah Khomeini. Sono quarantasette anni che dispensano preghiere e morte.

Le strade di Sadi Street odorano di tè forte e frustrazione. I commercianti parlano sottovoce, ma gli occhi tradiscono l’inquietudine. Qui non servono slogan: basta guardare il prezzo dei melograni, o quello del pane. L’inflazione supera il 40%. Il cibo più del 70%. Ogni giorno è più caro del precedente. Le famiglie stringono la cintura fino al punto in cui la fame diventa politica. Teheran non è sola. A Isfahan, Shiraz, Mashhad, la folla cresce, i passi consumano l’asfalto. È una protesta senza bandiere e senza padroni, una scossa che risale dal basso, dal cuore antico di un Paese che ha conosciuto imperi, rivoluzioni, martiri e sogni infranti. Quando un popolo torna in piazza, la storia si rimette in cammino.

La Repubblica islamica prova a reagire. Il governatore della Banca centrale Reza Farzin si dimette, il governo promette un piano di salvezza in 20 punti. Si parla di sussidi elettronici, di salari da rafforzare, di una valuta da riportare a riva. Sembra la preghiera di un naufrago.

Ogni ministro esibisce ottimismo, ma dietro i sorrisi c’è il panico di chi vede il pavimento cedere, perché la crisi non nasce oggi. Nasce nella rottura violenta con l’Occidente, e poi nelle sanzioni che hanno chiuso il Paese in una gabbia di solitudine. Nasce nel petrolio che non basta più a comprare il futuro. Nasce nel muro che separa l’Iran dal mondo. Troppa fede, poca economia e alla fine il conto arriva sempre.

La protesta però non è solo fame. È identità lacerata. Il regime vacilla ma non cade, e non cade perché dall’altra parte non c’è un esercito unito. Ci sono i nostalgici dello scià che sognano un ritorno all’età dell’oro, i comunisti che vivono di lotte antiche, i laici che vogliono chiudere per sempre la parentesi religiosa, i moderati che credono ancora nel compromesso. Tutti contro il potere, nessuno disposto a lasciare spazio all’altro. La rivoluzione si inceppa nella diffidenza. È come se il destino del Paese fosse sospeso su una corda sottile. Da un lato un regime stanco, che però conosce perfettamente l’arte di sopravvivere. Dall’altro un popolo esausto, che sa gridare ma non sa ancora comandare. Nel mezzo, un silenzio carico di attesa. Qualcuno dice che basterebbe una scintilla. Ma in Iran le scintille non mancano. Manca il fuoco che le unisca. È ora di togliere tutti i veli, magari nel nome di Masha Amini.

A Teheran, in certi giorni d’inverno, la nebbia si posa sui minareti e sembra fumo di futuro bruciato.

Il bazar chiuso è una profezia.

Il 2026 si apre così: un Paese che urla e un regime che fa finta di non sentire. Ma ogni notte, dietro le mura di Teheran, qualcuno si sveglia di colpo temendo che l’alba possa portare la fine o la salvezza.