Amazon, shock licenziamento | Chat aziendali: cosa spunta dal passato? 

Un manager Amazon licenziato per le chat interne. La Cassazione chiarisce i limiti dei controlli aziendali e l’accesso ai messaggi dei dipendenti. Una svolta cruciale.

La notizia, riportata da Brocardi, ha scosso il mondo del lavoro: un dirigente delle risorse umane di Amazon è stato licenziato dopo che l’azienda ha esaminato le sue conversazioni interne. Questa vicenda, tutt’altro che isolata, ha portato la Corte di Cassazione a emettere una sentenza storica, la n. 32283 dell’11 dicembre 2025, che definisce in modo chiaro i confini entro cui un datore di lavoro può accedere alle chat aziendali dei propri dipendenti.

Il caso specifico riguarda un manager che utilizzava la piattaforma di messaggistica interna Chime. A seguito della segnalazione di un candidato che lamentava un trattamento ingiusto nel processo di selezione, Amazon ha deciso di approfondire. Dalle chat è emerso che il dirigente aveva inizialmente approvato l’assunzione di un corriere, ma aveva poi cambiato idea, cedendo alle pressioni di un collega e violando apertamente le procedure aziendali. Questo comportamento, giudicato lesivo del vincolo fiduciario, ha portato al suo licenziamento immediato.

Il ricorso del manager e le motivazioni della Suprema Corte
Il ricorso del manager e le motivazioni della Suprema Corte

Il ricorso del manager e le motivazioni della Suprema Corte.

 

Il dirigente licenziato, non rassegnato alla decisione, ha portato la sua battaglia legale fino alla Corte di Cassazione, dopo un primo diniego dalla Corte d’Appello di Torino. Il fulcro della sua difesa, sostenuta dagli avvocati Livio Neri e Alberto Guarisio, verteva sulla presunta illegittimità dell’acquisizione delle conversazioni. La tesi principale era che tali chat potessero contenere messaggi di natura privata, la cui consultazione avrebbe violato i diritti personali del lavoratore, soprattutto se i messaggi risalivano a un periodo precedente l’insorgere di un sospetto fondato di illecito.

La Suprema Corte, tuttavia, ha rigettato con decisione questa argomentazione. I giudici hanno stabilito che le conversazioni aziendali possono essere acquisite e utilizzate dal datore di lavoro anche “a ritroso nel tempo”, purché lo scopo sia quello di tutelare il patrimonio aziendale. Questo concetto, spiegano i magistrati, non si limita al mero aspetto materiale dell’azienda, ma si estende al suo valore immateriale, comprendendo la protezione dell’intera organizzazione e, implicitamente, degli altri dipendenti. Si delinea così un quadro in cui la sicurezza e l’integrità aziendale prevalgono sulla pura aspettativa di privacy nelle comunicazioni di lavoro.

La chat aziendale come strumento di lavoro e i controlli difensivi
La chat aziendale come strumento di lavoro e i controlli difensivi

La chat aziendale: strumento di lavoro e oggetto di controlli difensivi.

 

La sentenza della Cassazione si basa su due pilastri fondamentali che ridefiniscono il rapporto tra azienda e dipendente nell’era digitale. Il primo principio riguarda la natura stessa della chat aziendale: essa è considerata a tutti gli effetti uno strumento di lavoro. Essendo fornita dall’azienda e funzionale allo svolgimento delle mansioni professionali, i dati e le informazioni che vi transitano possono essere utilizzati “a tutti i fini”, inclusi quelli disciplinari. È cruciale, però, che i dipendenti siano stati preventivamente e adeguatamente informati su questa possibilità di controllo, garantendo così il rispetto dei principi di trasparenza e correttezza.

Il secondo aspetto chiave sono i cosiddetti “controlli difensivi”. La legge permette al datore di lavoro di esercitare questi controlli per prevenire o accertare comportamenti illeciti, basandosi su indizi concreti relativi a specifici dipendenti. Questi strumenti, che possono essere anche di natura tecnologica, rappresentano una salvaguardia legittima per l’azienda contro condotte sleali o dannose. Nel caso del manager Amazon, la Cassazione ha evidenziato che, data la sua posizione di alta responsabilità, il vincolo fiduciario era particolarmente intenso. Qualsiasi comportamento che ne mini l’affidabilità può, quindi, giustificare un licenziamento, senza che questo debba essere considerato un’extrema ratio, ma piuttosto una conseguenza diretta della violazione di tale fiducia.

Questa sentenza segna un precedente significativo, delineando un confine più netto tra la privacy individuale e le esigenze di tutela aziendale nel contesto degli strumenti di comunicazione professionale. Datori di lavoro e dipendenti sono ora chiamati a una maggiore consapevolezza sull’utilizzo delle piattaforme di messaggistica interne e sulle relative implicazioni legali.