L’ultima strambata della sua immaginazione lo aveva portato sulle rive del fantasy. Lola e Vlad si chiama il suo ultimo libro, edito da Polidoro, e racconta l’amore nato in chat tra due giovani e la storia che ne discende che si snoda tra sette di vampiri e psichedelici scenari.
A chi lo ha conosciuto e letto come rigoroso cronista e lucido intellettuale potrebbe apparire singolare, ma Piero Melati, che se ne è andato ieri a 69 anni, era vasto. E, dunque, conteneva moltitudini. Celate dietro uno sguardo lieve, buono e incantato. Come dovrebbe restare sempre quello del cronista ad onta degli accadimenti che la vita e il mestiere gli scaraventano addosso.
Il mestiere, Piero, lo aveva cominciato nella sua Palermo (che già di suo è una università del giornalismo) in quel dipartimento di eccellenza assoluta che è stato il giornale L’Ora. Erano anni di mattanza mafiosa e di resistenza (sia pure “delegata” dalla città cannibale e indifferente a rare avanguardie del giornalismo, della politica, della magistratura) alla mafia stessa. Erano gli anni, per esempio, in cui si apriva il maxi processo alla mafia che fu il grande impegno di Melati da cronista.
Ma la città cannibale ti azzanna e ti fa male, soprattutto se dentro ti porti altri mondi siano essi la letteratura (con lui potevi parlare per ore degli scrittori americani), la musica (Piero amava il rock e sua moglie, la nostra collega Claudia Morgoglione, e la figlia Flavia hanno scelto le note degli amatissimi Grateful Dead per l’ultimo saluto oggi dalle 12 alle 15 alla camera mortuaria dell’ospedale San Camillo) o soltanto l’idea di un finale diverso.
E poi il giornale L’Ora era un naturale vivaio di giornalisti talentuosi destinati, per nutrire il loro talento, a lasciare la Sicilia. Arrivederci Palermo, allora. Piero Melati va prima a Paese Sera e poi a Repubblica alla redazione di Napoli. Dove trova cibo per i mondi che alleva dentro di sé.
Sono anni in cui c’è da raccontare l’incanto disperato di Maradona (il calcio era un’altra delle passioni di Piero che da interista tribolava e gioiva) e le nefandezze della camorra affarista e sanguinaria. Ma quello a Palermo era stato solo un arrivederci. Così, quando nel 1997, Repubblica decise di aprire la redazione nel capoluogo siciliano, Federico Geremicca lo volle al suo fianco.
Erano anni in cui quel finale diverso della storia contorta e dolorosa della Sicilia pareva possibile: la resistenza alla mafia pareva aver assunto una dimensione quasi popolare, non più affidata a pochi. Piero divenne lo zio saggio di quella redazione giovane e corsara, pronto a mettere a disposizione dei colleghi non solo il suo sguardo profondo sulle cose, ma anche la sapienza professionale accumulata negli anni e una ironia lieve che confinava col disincanto, ma che mai sconfinava nel cinismo rassegnato.
Che poi, Palermo e la Sicilia difficilmente te li togli di dosso tanto che — dopo il ritorno a Roma al Venerdì di Repubblica dove gestiva la cultura e la pensione — la sua prima, vera prova letteraria è stata un libro che merita un posto di assoluto rilievo tra i tanti che la Sicilia hanno provato a raccontarla. La notte della civetta, si chiama e già dal titolo annuncia il suo spessore. Perché è una controstoria della Sicilia, una narrazione sciascianamente eretica di quella nave alla deriva nella storia — a bordo della quale come nel vascello di Benito Cereno di Melville è difficilissimo capire chi siano i buoni e i cattivi, gli ammutinati e i leali — che è l’Isola. Un viaggio avventuroso che solo un intellettuale come lui, capace di coniugare l’alto e il basso, poteva compiere mantenendo la lucidità di analisi che quel libro restituisce.
Di quel libro e di quasi tutti gli altri mondi che Piero conteneva parlavamo negli anni in cui si lanciò in un’altra avventura scritta dalla sua immaginazione quando accettò di fare il direttore artistico di Una Marina di libri, rassegna letteraria che da Palermo riuscì a proiettare sulla scena nazionale. Sempre senza alzare la voce, solo con la forza del suo sguardo lieve con il quale adesso bussa alle porte del paradiso. Recando chissà perfino le note di Bob Dylan.