Daikon di Samuel Hawley è un romanzo di fantastoria che ridefinisce il destino della bomba atomica e della Seconda guerra mondiale. In un momento in cui il tema del nucleare torna di drammatica attualità, vale la pena rifletterci anche a partire dalla finzione letteraria
Il daikon è un ortaggio tipico del Giappone. Appartiene alla famiglia del ravanello, ma la sua forma ricorda una carota che ha perso l’arancione. Lo si può lasciare crudo, tagliandolo sottile e usandolo per insaporire un’insalata, oppure cuocerlo e farlo diventare l’elemento base di un brodo caldo. È un ingrediente importante della cucina giapponese, mi verrebbe da dire persino identitario.
Popolare, nel senso che è diffuso ovunque, dalla dispensa di una famiglia che deve mettere insieme due stipendi per arrivare alla fine del mese, ai piatti cucinati per l’imperatore, il daikon c’è sempre. Anche nei momenti più difficili, un pezzetto di daikon salta fuori. Mi colpiscono le cose semplici che riescono a tenere insieme qualcosa di molto complesso: un popolo intero nel caso del daikon. Più che un ingrediente è quasi un simbolo di resistenza.
Ecco, il Daikon del titolo dell’avvincente romanzo di Samuel Hawley, il primo per l’imprint Silvio Berlusconi editore, non ha niente a che fare con l’ortaggio: è il nome con cui i giapponesi battezzano la loro bomba atomica. Quella di Hawley è un’ucronia e come vuole il genere anche questa parte da una domanda molto semplice: «Cosa sarebbe successo se anche i giapponesi avessero avuto l’atomica?».
Gli ingredienti per un bel romanzo ci sono tutti: l’eroe un po’ nerd che preferisce starsene nascosto, ma che tira fuori un coraggio da leone quando la Storia lo chiama; l’amata da salvare; un cattivo eccezionale, che sembra uscito da Street Fighet o un Anime; tenuti insieme da scrittura fluida, capace di incastrare stili diversi, dando alla lettura un ritmo incalzante.
Siamo nei giorni del bombardamento su Hiroshima – sono passati ottant’anni proprio in questi giorni da quel momento, una vita intera – solo che in Daikon l’atomica sganciata dagli Stati Uniti non esplode, ma viene recuperata dai giapponesi che prima si chiedono cosa sia, e poi come funzioni. Lo scoprono grazie al fisico Keizo Kan, che viene costretto a dare risposte ai militari dal Colonnello Sagara, un tipo dritto come la lama di una katana, ma subdolo come un pugnale nascosto.
Fat Man e Little Boy sono i nomi innocenti delle due bombe atomiche che hanno spazzato via centinaia di migliaia di vite e allora Hawley non resiste alla tentazione di dare un nome altrettanto innocente anche alla sua atomica inventata e la chiama proprio Daikon. L’ingrediente giapponese. Il simbolo di resistenza di un popolo in difficoltà che, nello sviluppo della trama, si trasforma in uno strumento di vendetta.
Il valore della storia
L’ucronia non è un genere che frequento. Penso sia più affascinate leggere quello che è successo davvero e per questo mi sono sorpreso quando alla fine di Daikon ho cominciato a farmi delle domande, a collegare la finzione di Hawley con quello che è successo davvero, prima a Los Alamos e poi a Hiroshima e Nagasaki. Hawley non mi ha soltanto intrattenuto, tenendomi incollato al suo racconto – cosa non da poco, e per niente scontata – ma mi ha permesso di mettermi in discussione.
Ho recentemente scritto anch’io un libro che racconta della bomba atomica (La Società Dei Profeti, Mondadori Strade Blu) o meglio dell’uomo che la costruì – Enrico Fermi – di quello che la rubò – la spia sovietica Klaus Fuchs – e di quello che la rifiutò – Edoardo Amaldi, l’unico dei ragazzi di Via Panisperna rimasto in Italia per proteggere gli scienziati che non riuscirono a fuggire dal regime fascista.
Viene da chiedersi come mai questo proliferare di libri su qualcosa successo più di ottant’anni fa e la risposta, per quello che mi riguarda, è che oggi la bomba atomica sembra più attuale che mai ed è interessante, anzi fondamentale, capire cosa abbia spinto quegli uomini nel deserto del New Mexico a costruirla.
Ripercorrerne la storia permette di rispondere a questa domanda, che ha una risposta chiara e per molti aspetti condivisibile, ovvero la paura che Hitler ci arrivasse per primo e la usasse per conquistare il mondo, ma anche di scoprire che proprio Enrico Fermi, l’uomo che diede forse il contributo più importante nella sua realizzazione, quando arrivò il momento di usarla, lottò per impedirlo.
Dimenticare serve?
Con la sua riscrittura della storia Hawley mi ha fatto pensare se dimenticare sia più utile di ricordare. Personalmente non ho dubbi: ricordare è fondamentale, per non ripetere certi sbagli certo, ma anche per affrontare i traumi del passato e cercare di risolverli. Solo che per farlo davvero il ricordo a un certo punto deve trasformarsi in qualcos’altro, ed è allora che entra in gioco il dimenticare. E non mi riferisco a quello che è successo, ma al dolore che è stato provato.
Dimenticarlo, per lasciare spazio all’accettazione: è successo, c’è stato, e nulla di quello che possiamo fare o faremo lo cancellerà. Al pari del ricordo questa accettazione di ciò che è stato lasciando indietro il dolore, è necessaria per andare avanti, per scrivere quella storia nel DNA di un popolo e fare in modo che non crescano fiori del male. Lo si può fare se è passato abbastanza tempo, e lo si comincia a fare quando concediamo alla nostra fantasia di intervenire su quella storia. Per riscriverla. O per cercare di farlo.
E allora il romanzo di Hawley, in cui il fisico Keizo Kan e il Colonnello Sagara sono sulle sponde opposte di questa storia di vendetta, non è un’ucronia, un “what if”. La domanda a cui risponde forse non è «Cosa sarebbe successo se i giapponesi avessero avuto l’atomica?», ma qualcosa di molto più profondo. «Come si resiste sotto ai colpi della vita?». E la risposta forse è proprio nella fantasia. E nel daikon, che anche quando tutto è difficile lui c’è, nella sua profonda semplicità.
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