Due horror, in sala in questi giorni, con più di qualcosa in comune nelle premesse eppure diversissimi per svolgimento e risultati. Spoiler: entrambi bei film, anche se io poi ho le mie preferenze. Quello che li accomuna non è tanto che entrambi annoverano tra i protagonisti un’adolescente asiatica e un palestrato coi riccioli d’oro, semmai il fatto che entrambi sono incentrati sull’orrore che avviene tra le quattro (o più) mura domestiche. In entrambi l’orrore delle dinamiche familiari (famiglie naturali, famiglie acquisite) fa (quasi) più paura di quello soprannaturale. Si può forse dire che in entrambi quello che atterrisce di più sono le morbosità dei genitori, più che i demoni o le presenze.
Il primo dei due è proprio Presence di Steven Soderbergh. Dal trailer avevo grandi aspettative, come del film che avrebbe potuto dire qualcosa di nuovo sul tema classico della casa infestata dai fantasmi. In realtà dal punto di vista tecnico quello che caratterizza il film è l’adozione delle riprese in prima persona. Non una grandissima originalità in sé, certo, ma dipende forse di chi è questo punto di vista. Comunque, col passare dei minuti diventa chiaro che allo statunitense interessa meno (o niente) puntare sullo spavento per le manifestazioni sovrannaturali quanto investigare l’horror vacui di una famiglia preda di aspettative, ambizioni, non detti e angosce, genitori inadeguati e adolescenti allo sbando, figli modelli o rinnegati che siano, alle prese con la scelta se cedere al conformismo più stupido per sopravvivere (anche) fuori casa o restare soli e disperati. Altro tema non nuovissimo, per carità, ma Presence non sa di esercizio di stile sterile. Anche se di stile ne ha. Il modo in cui i diversi personaggi entrano in contatto con il soprannaturale (relazionandocisi, interrogandosi, negandolo) riflette in maniera forse schematica la distanza progressiva tra le loro personalità ed il concetto di umanità. Decisamente rarefatto, non consiglierei forse Presence a chi in un horror cerca scombussolamenti di budella. Si può forse questionare che questo sia davvero un horror, quanto semmai forse un thriller familiare con componenti soprannaturali. Ma di discutere sulle esatte definizioni di un’opera, enciclopedia alla mano, mi scoccio pure quando parliamo della nostra musica. Figuriamoci di cinema.
Tutt’altra musica l’australiano Bring Her Back dei fratelli Philippou, ex-iutuber (parola detestabile) il cui film precedente, Talk To Me, non era riuscito a convincermi del tutto, ma riconoscevo avesse premesse promettenti. La nuova pellicola (si dice ancora così?) per il sottoscritto è un centro pieno, invece. Tanto è rarefatto il film di Soderbergh, quanto quello dei Philippou non risparmia nulla allo spettatore, in termini di efferatezze e gore, necrofagia ed autofagia. Eppure Bring Her Back non è un film splatter. Anzi, è la cornice soprannaturale di culti stregoneschi e necrofili, mostrati da videocassette in lingua russa, che spinge l’orrore ben più in là… Ma anche qui, la cosa che fa più paura di tutte è forse la mente di una madre, l’affidataria dei due protagonisti (una terrificante Sally Hawkings), col suo repertorio di angosce, mistificazioni, manipolazioni, diaboliche per davvero, e violenze. Film compatto, potente, cartavetrata per lo stomaco. Tocca diversi stili di horror contemporaneamente senza sembrare un’antologia. Anche scritto decisamente bene, almeno per me. Certo, non si capisce un’acca di come funzioni quella cosa lì, quella delle videocassette russe. Forse fa parte semplicemente del mistero, ma io mi vedrei ben volentieri uno o più spin-off legati a quella parte della storia. Mica solo per capirci di più. Speriamo ne facciano. Comunque, filmone. Andate a vederlo. (Lorenzo Centini)