Aspettano con gioia l’ultima uscita del loro scrittore preferito e poi lo seguono sui social, in piazza o in libreria. Scrivono – come Madame la Présidente su medium.com – «Lasciatemi iniziare come una groupie: O My God! O My God! O My God! Io amo Chimamanda!» per parlare del nuovo romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, L’inventario dei sogni (Einaudi). Raccontano di essere “collezionatrici di libri autografati” e di rincorrere idoli come Elizabeth Gilbert e David Sedaris. È il popolo del “groupismo letterario”, un fenomeno sbarcato anche in Italia che registra folle alle manifestazioni, file ai firmacopie, del Salone del libro di Torino e non solo… Perché la notizia è questa: gli scrittori sono i nostri nuovi miti.
Chiara Valerio, in una delle sue dirette su Instagram, aggiunge che se si organizzano così tanti festival letterari è perché sono incontri che riguardano più la politica della letteratura. Riguardano una “necessità”, in realtà, quella che hanno i corpi di incontrarsi e scontrarsi.
Ed è così che gli appuntamenti affollatissimi con Roberto Emanuelli fanno da pendant con quelli dell’americana Rebecca Ross che all’ultimo Salone era circondata da ragazze vestite con veli bianchi per un addio al nubilato: stavano regalando all’amica l’incontro su Il Fuoco Infinito. Fra le trecento persone in fila per il firmacopie, c’erano Francesca, 36 anni, tatuatrice («Ormai la seguo ovunque»), e Roberta, 31 anni, impiegata, in lacrime: «Avevo il cervello in tilt. Io commento le sue storie su Instagram perché sento di avere una connessione emotiva e letteraria con lei» dice. La Ross, dal canto suo, racconta: «Una lettrice una volta mi ha chiesto di inventare una parola e di scriverla nel libro che dovevo firmare».
Gli autori di certi libri sono quasi un punto di riferimento esistenziale e conoscerli di persona diventa imprescindibile (Illustrazione di Eloïse Heinzer).
Segreti di famiglia
Chiamatele writer groupies. Ovvero gente in attesa del prossimo firmacopie o del cambio di look sui social del loro scrittore del cuore che, sceso dalla torre d’avorio, forse è meno misterioso ma di sicuro più accessibile… «A metà Ottocento, poco prima di morire, Dickens fece un lungo giro negli Usa. Non era in gran forma ma voleva leggere ad alta voce le sue opere. Gli scrittori in realtà hanno sempre incontrato i lettori, forse oggi sembra che lo facciano di più perché è amplificato dai social» confessa la scrittrice Nadia Terranova. «Io leggo tutte le email e rispondo. I momenti in cui vado in giro per i miei libri sono molto commoventi. Soprattutto quando tu hai tirato fuori cose dai segreti di famiglia e qualcuno ti dice: “Grazie, anche a me è successo”. Una volta un ragazzo è venuto per dirmi come il mio incontro tenuto sei anni prima nella sua scuola gli avesse cambiato la vita. Adesso studia Lettere».
L’autrice Nadia Terranova (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
Sono fan diversi questi, almeno rispetto alle groupies (musicali) degli anni Sessanta disposte a tutto nei backstage con i loro miti del rock. A quelli letterari basterebbe forse un selfie insieme, un momento di intimità al firmacopie, un like sui loro post e poi magari un’amicizia. «Io mi definisco una lettrice di Nadia» dice Flavia, 28 anni, romana. «Lei è la conferma del potere che ha la lettura nel creare connessioni. Ho letto per caso Addio ai fantasmi, le ho scritto e mi ha risposto. A una sua presentazione ho avuto l’illuminazione per la tesi del mio master e l’ho intervistata. Da allora mi sono occupata della sua newsletter, ho riordinato la sua libreria dopo un trasloco e siamo diventate amiche. Nadia mi ha insegnato a rischiarare zone d’ombra della mia personalità e ad avviarne altre senza timore».
Sono parole di amicizia forti e somigliano a quelle di Antonia Guida, 26 anni, residente a Ravenna, che si definisce “ammiratrice” di Stefania Andreoli, psicoterapeuta e scrittrice. «Come dice l’etimologia, io sono una che la “guarda con meraviglia”. L’ho incontrata prima a Bologna e poi a Napoli, le ho consegnato anche una lettera. Seguirla per me è vivere un incontro pieno di significato. Mi colpisce il modo in cui usa le parole per eventi delicati. Nella storia di Giacomo in Lo faccio per me (Rizzoli) ho ritrovato parte della mia».
Le parole di Antonia sono di quelle che imbarazzano la Andreoli, la fanno sentire in difetto. «Se non fossi tanto seguita, il mio lavoro sarebbe diverso, lo so. Nel contempo però i regali in studio, le email, o le lacrime di alcuni sono travolgenti: è come se dovessi dimostrare altro per non perdere questa stima» confessa. «Sì, i social hanno abbattuto barriere e io li uso, vado a incontri davanti a migliaia di persone. Ed è sempre imprevedibile. A volte arrivano con dediche che si sono scritte da soli e vogliono che le firmi, altre vogliono che scriva una mia frase per poi tatuarsela o ricamarla su una maglietta».
Salvati dalla solitudine
Accade di tutto insomma. Anche di entrare in sintonia con qualcuno mai visto: Michael Bible, 41 anni, scrittore di New York, è più seguito in Italia che in patria. Al punto che a Roma l’Urban Book Club Community, ovvero la prima book community itinerante d’Italia, lo ha scelto come lettura del mese di luglio. «Io scrivo perché i libri mi hanno salvato dalla solitudine e non sto molto sui social. Vedere che gli altri però mi contattano lì per dirmi che li ho sottratti all’isolamento è una ricompensa altissima. Leggere somiglia a una conversazione privata tra scrittore e lettore, è naturale la curiosità» confessa Bible, autore di Goodbye Hotel e di L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (Adelphi), i libri scelti da Martina Cotichella, classe 1987, per leggerli con quelli della comunità Urban da lei fondata.
«Quando ho fatto il post sull’incontro, Bible lo ha subito condiviso e io l’ho invitato a Roma, speriamo venga presto» racconta. «Entrare in contatto con un autore è come creare un ponte tra la nostra realtà e i suoi pensieri. Bible racconta di un’epoca che i millennial conoscono bene, ovvero quando internet era agli albori, e fa un’altra cosa: suggerisce varie strade da imboccare davanti agli eventi, sta a te non fermarti alla prima impressione. A volte, però, ti dice che non serve capire tutto e io provo un gran senso di libertà».
Ne è convinta anche Noemi Orlando, 34 anni, che lo spia sui social. «Bible ha quasi tremila follower e solo ventuno post, grazie a loro so che ha un cane e che ogni tanto mette mano alla musica synth pop. Ho comprato un suo libro due volte a distanza di due anni, la seconda l’ho capito e mi sono innamorata. Con lui realizzi che i fatti della vita a volte non sono “né un male né un bene”. Conta la volontà di vivere e, nel suo caso, di essere ricordato».
Ho cercato un passaggio
Marina, 27 anni, di Desio, si è ricordata di Francesca Biella (595mila follower), l’influencer che aveva smesso di seguire perché era troppo bella per non invidiarla. «La cercavo on line perché volevo avere la sua vita e la sua famiglia: io mi trovavo fra tante difficoltà» racconta. «Poi un giorno leggo del suo dolore per la separazione dei genitori, di come non apprezzi tutto del suo corpo e, soprattutto, del diario che stava pubblicando… Mi sono ricordata che in quei giorni la mia psicologa mi aveva consigliato di tenerne uno: realizzo che la Biella non è perfetta. Lo compro, mi aiuta e voglio dirglielo all’incontro di Milano. Scrivo un post per cercare un passaggio perché soffro di ansia sociale e non prendo i mezzi. Francesca lo condivide e e vengo contattata. Sono andata, ero felice».
Marina è coetanea dell’autrice di Oggi sarà bellissimo (Mondadori), un journaling che parla di benessere partendo da aneddoti personali. «È la ragione per cui mi chiedono sempre più cose della mia vita» racconta Biella. «Ricevo messaggi sin da quando facevo video motivazionali, ma ora mi contattano per ringraziarmi di come si sentono “compresi” col libro. Agli incontri affollati di ragazze mi emoziono sempre, anche se io non andrei mai a quello del mio scrittore preferito: Joel Dicker! Ciò che mi dice da lontano mi basta e lo custodisco».
Qualcuno resta spiazzato
In effetti, il rischio che il “mito” dal vivo sia altro dall’idea che ci siamo fatti è alto. «Alle presentazioni la gente mi tiene la mano, vorrebbe abbracciarmi» interviene la scrittrice Roberta Recchia. «Quando però dico che non ho figli, alcuni restano spiazzati… Non se lo aspettano, visto che parlo di maternità. Una madre un giorno è venuta a ringraziarmi perché nelle mie pagine aveva trovato le parole per il dolore della morte di suo figlio».
Fra i suoi fan c’è pure chi l’ha seguita quando è andata a ritirare un premio letterario. «Era così pesante che l’ho portato a casa con me perché lei doveva prendere un treno per un altro incontro» ricorda Gabriel Uccheddu, 24 anni, di Roma. «Con Roberta è stato amore “a prima parola”. L’ho conosciuta per caso in libreria e da allora andiamo insieme ai concerti, la aiuto sui social, parliamo al telefono di libri e poi mi piace spronarla». A sentirlo sorge un dubbio: se il termine “groupie” nasce al femminile, servirebbe trovarne uno al maschile? Forse no. Ognuno è fan come vuole ma il potere di creare una rete virtuosa di persone appartiene solo a una cosa, bella e misteriosa: lèggere