Questo articolo è pubblicato sul numero 32-33 di Vanity Fair in edicola fino al 12 agosto 2025.
Più di vincere Sanremo, in questo momento vorrei innamorarmi». Alfa, nome d’arte di Andrea De Filippi, 24 anni, genovese, sta vivendo l’estate più intensa della sua carriera: un tour che attraversa l’Italia e presto toccherà anche l’Europa, un singolo, A me mi piace con Manu Chao, che continua a girare ovunque, numeri da record. Ma quando parla di sé, lo fa con una sincerità che spiazza. Racconta quella felicità che, come gli ha insegnato Roberto Vecchioni, è «una scelta consapevole, da fare ogni giorno». È la voce di una generazione che oscilla tra fragilità e coraggio, tra voglia di vivere e il timore di non farcela. E non se ne vergogna: «Siamo stati le cavie del digitale», spiega, «ma sogno nuovi anni Sessanta, in cui le persone si sentano più libere».
Questa, però, è la sua estate.
«Il mio brano è primo da quasi due mesi ovunque. Sono superstizioso, ma per ora me la sto godendo. È un’estate faticosa, ma arriva dopo un lungo lavoro. Durante i live c’è un momento in cui chiedo al pubblico di abbassarsi e poi saltare: si creano onde giganti. Non andrò molto al mare, ma questa è l’onda più bella che abbia mai visto».
Cosa ricorda dei primi concerti?
«In Calabria abbiamo suonato al centro di una rotonda, una volta in piscina, su un bancale della frutta. Mentre cantavo, un ubriaco mi lanciava cubetti di ghiaccio. Ho finito il pezzo schivandoli. Ai festival suonavo dopo artisti molto più grandi: vedevo solo le nuche di chi se ne andava».
Cos’è che trasforma una canzone estiva in un tormentone?
«Credo l’involontarietà. Oggi, più che mai, il pubblico percepisce quando un brano nasce da un’urgenza e quando invece è costruito a tavolino. Le hit fatte con autori, produttori e il cantante che incide in dieci minuti non funzionano più. Questo mi rincuora: è un segnale che la gente vuole sentire qualcosa di vero. La mia canzone è leggera, non profondissima, ma autentica».
Pensa che quest’estate senza i classici tormentoni sia un segnale di cambiamento?
«È anche l’estate in cui tanti live sono saltati o non erano davvero pieni. L’ossessione del sold out nasce dall’insicurezza: non riempire una data non è una tragedia. Io sono fiero dei palazzetti, ma oggi non farei gli stadi, nemmeno potendo: è qualcosa che va oltre il sogno».
Perché c’è questa corsa agli stadi?
«La vera domanda è: “Ne vale davvero la pena?”. Quando devi riempire una data enorme, perdi l’essenza di scrivere. Diventa un disco da fare in fretta, solo per promuoverti».
Filiberto Signorello
Le è mai capitato di concentrarsi troppo sui numeri?
«A 19 anni mi è esplosa Cin Cin, con numeri fuori da ogni logica. Dentro di me ha creato un’aspettativa enorme: quando i numeri calavano, mi sentivo triste, depresso nel vero senso della parola. Sono stato molto male. Ricordo momenti in cui camminavo per strada e pensavo: “Qui mi fermavano in venti, oggi
in tre. Perché?”».
Come ne è uscito?
«Soffrendo e informandomi. Quando ho paura di qualcosa, voglio capirla fino in fondo. Ho letto un libro bellissimo sulla dopamina e su come i social diano una felicità adrenalinica che ti porta a sacrificare i tuoi valori. Poi, cinque anni fa, ho iniziato un percorso con una psicologa: vado ogni settimana, anche quando non ho niente da dire. Quelle sono le sedute migliori».
Dopo Sanremo con Vecchioni, quest’estate ha incontrato Manu Chao, Ed Sheeran. Com’è andata?
«Manu Chao mi riporta a mio papà: ascoltavamo Clandestino in macchina e lui era stato al concerto del G8 a Genova. Mi ha colpito la sua libertà: potrebbe suonare ovunque, ma sceglie i piccoli club perché si diverte di più. Di Vecchioni avevo il poster in camera, mentre gli altri avevano Messi o Justin Bieber. Mi ha insegnato che la felicità è una scelta. Ed Sheeran l’ho visto su Mtv nel 2009, con quei capelli rossi, mentre suonava per strada: è stato lì che ho deciso di iniziare a fare il busker anch’io. Cantare insieme è stato un cerchio che si chiude. Qualche giorno fa mi ha consigliato dei ristoranti a Londra».
Dopo il suo primo Sanremo in tanti hanno detto: «È arrivato Alfa, la rivincita dei buoni».
«“Buono”, “umile”, “normale” sono tutti termini che mi attribuiscono. Dopo Sanremo ho scoperto di essere “positivo”, ma non è una cosa a cui penso mentre scrivo. È qualcosa con cui sto lottando, perché “buono” mi sembra un termine un po’ bidimensionale. Mi sento più profondo di come mi descrivono».
Ha detto che la sua generazione le sembra fragile e aggressiva. Cosa potrebbe aiutare a cambiare rotta?
«Un percorso psicologico obbligatorio aiuterebbe. Abbiamo bisogno di supporto. Il mondo fa paura, le guerre fanno paura, e veniamo da una pandemia che ci ha lasciato con un’ansia costante verso il futuro. E siamo schiacciati dall’attenzione: non riusciamo più a concentrarci. Io spero molto nelle prossime generazioni. Sogno ragazzi più liberi, che vivono meglio il rapporto con il cellulare. Noi siamo stati i primi a scoprirne pro e contro. Spero in nuovi anni Sessanta, che prima o poi torneranno».