Durante una lunga stagione storiografica ed etnografica, il folklore è stato interpretato come espressione delle classi subalterne, in opposizione agli usi e agli interessi dei ceti egemonici. Questo modello binario ha offerto strumenti analitici potenti, ma si è rivelato troppo rigido in contesti, come il Medioevo, dove le differenze culturali non coincidono sempre con le stratificazioni sociali. Jacques Le Goff, per esempio, osservava che la vera frattura era tra clero e laici, mentre il sistema culturale restava fondamentalmente unitario, pur segnato da polarità interne.
COLTO E FOLKLORICO non sono mondi separati, ma poli dialettici di un unico sistema, attraversato da continui scambi. Ne derivano fenomeni come la «folklorizzazione» di elementi ecclesiastici e la «volgarizzazione» di motivi teologici: il motivo della «religione popolare», come veniva chiamata, ha ugualmente risentito di questo dibattito.
Negli ultimi decenni, l’idea dell’ibridazione culturale ha sostituito la logica della separazione con quella della circolazione. Le nuove prospettive dissolvono l’opposizione netta tra popolare e colto, sostituendola con una visione dinamica, fatta di scambi, appropriazioni e rielaborazioni, dove il folklore non è un residuo arcaico, ma parte integrante di una rete culturale complessa e mutevole. Gli effetti di questo cambiamento di prospettiva si vedono anche in libri che sono scritti con un piglio narrativo. È il caso di un recente lavoro di Federico Canaccini (Sacre ossa. Storie di reliquie, santi e pellegrini, Laterza, pp. 304, euro 19) nel quale l’autore racconta la storia del culto delle reliquie nel cristianesimo, dalle origini fino alla contemporaneità, mostrando come il «sacro tangibile» abbia influenzato spiritualità, politica e cultura materiale.
Seguendo la lezione di Peter Brown, il libro evidenzia come nei primi secoli cristiani il corpo dei martiri fosse divenuto oggetto di venerazione: ossa, sangue e strumenti del martirio sono percepiti come fonti di grazia, ma anche come strumento di potere. Con la pace costantiniana, infatti, il culto si amplia e assume valore politico: possedere reliquie significa potere e prestigio. Le chiese competono per accaparrarsi i resti più venerati, creando una rete di santuari che ridisegna il paesaggio sacro europeo. Il Medioevo rappresenta l’apogeo delle reliquie: contese tra città, sottrazioni notturne, veri e propri furti sacri. Emblematico il trafugamento del corpo di San Marco da Alessandria (IX secolo): due mercanti veneziani lo nascosero sotto carne di maiale per eludere i controlli musulmani. Giunto a Venezia, divenne il patrono della città e centro di una devozione duratura. Episodi come questo mostrano la dimensione politica e identitaria del culto.
IL LIBRO DEDICA SPAZIO alle reliquie di Cristo – legno della Croce, Sindone, «Santo Prepuzio» – e a quelle della Vergine, dal latte agli abiti. Singolare il culto del Prepuzio: nel Seicento se ne contavano una dozzina, ognuno rivendicato come autentico. La devozione divenne tanto popolare da costringere la Chiesa a limitarla, segno di un fervore che sfiora il paradosso ma riflette il desiderio di concretizzare il mistero dell’Incarnazione.
Ampio spazio ai pellegrinaggi: Roma, Compostela e Venezia diventano mete spirituali e poli economici, soprattutto con il Giubileo del 1300. Non mancano reliquie legate al sangue e ostie miracolose, come il culto di San Gennaro, e casi di strumentalizzazione politica, dalle leggende antiebraiche ai miracoli eucaristici. Una sezione, infine, è dedicata alla santità femminile: il corpo di Maria, la Maddalena e le mistiche medievali, simboli di un femminile sacralizzato. Con la Riforma le reliquie subiscono l’iconoclastia, ma non scompaiono: il Barocco le celebra, il Romanticismo le riscopre, e oggi sopravvivono in forma laica nei cimeli delle celebrità.
Con Duccio Balestracci e il suo Erodoto che guardava i maiali e altre storie popolari. 1300-1600 (Laterza, pp. 242, euro 20) ci spostiamo in un campo molto diverso, quello della Storia scritta «dal basso». Generalmente, nei secoli di riferimento, la storiografia è appannaggio di una cerchia colta: borghesi con buona alfabetizzazione, notai, mercanti e banchieri, ecclesiastici e umanisti capaci di maneggiare latino e greco. Accanto a questa produzione «autorizzata», si sviluppa un fenomeno inatteso: quello di autori provenienti dai ceti più bassi, spesso semi-alfabetizzati, che, spinti dal desiderio di lasciare una traccia, riempiono quaderni e zibaldoni di note disordinate. Nei loro scritti troviamo appunti di contabilità domestica accanto a cronache di eventi politici, ricordi personali mescolati a descrizioni di guerre e calamità.
Questi testi, estranei al canone e privi di ambizioni letterarie, nascono da un bisogno di partecipazione: non rassegnarsi al ruolo passivo di lettori e ascoltatori, ma raccontare la propria esperienza della Storia. Balestracci ne individua due gruppi distinti. Da un lato vi sono persone che sanno a malapena leggere e scrivere e che ricorrono alla scrittura esclusivamente per scopi pratici, come la tenuta dei conti o la redazione di inventari. Dall’altro emergono i semi-colti, definiti come i «meno colti dei colti», che cercano di sfruttare la scrittura in modo più espressivo. Pur mantenendo evidenti tracce di oralità e inflessioni dialettali, questi ultimi si avventurano in forme narrative più complesse.
QUESTO FENOMENO si colloca in un quadro di trasformazioni profonde. Tra XIV e XVII secolo, l’alfabetizzazione cresce non solo nelle città, ma anche in aree rurali e montane, grazie all’apertura di scuole di villaggio e all’opera di parroci e frati che impartiscono rudimenti di lettura e scrittura. Le cronache popolari prediligono la Storia vissuta: guerre, carestie, pestilenze, calamità naturali, anomalie climatiche, ma anche mirabilia: mostri, prodigi, segni celesti. Sono racconti ibridi, contaminati da registri diversi: cronaca, autobiografia, memoria familiare.
Tuttavia, a partire dal XVII secolo, l’uso pubblico della scrittura da parte dei non-colti si riduce a causa dell’affermarsi di un canone linguistico normativo che scoraggia chi non è in grado di adeguarvisi, ed è qui che si arresta anche il racconto di Balestracci. Naturalmente non è la fine delle scritture «popolari», ma il libro prova ancora una volta la straordinaria creatività della società bassomedievale.