La prima foto del nuovo libro di Lucia Buricelli Don’t feed the animals (Eyeshot 2024) ritrae quattro persone di spalle – tre adulti e un bambino – che si preparano a entrare in un mall, un centro commerciale, chiamato American Dream. Un’insegna specifica “Welcome to American Dream” ed è un’immagine che sembra finta, girata per la pubblicità di un posto inventato. Non può esistere un luogo che si chiama così. Invece è tutto vero: American Dream non è un semplice centro commerciale ma un immenso luna park dei consumi e dell’intrattenimento nel New Jersey, non molto distante da New York. Tutto sommato più che l’ammissione di un certo cinismo, potremmo prenderla come una dichiarazione onesta di cosa sia oggi il sogno americano.
Da questo ingresso inquietante, la fotografa ci trascina in un giro vorticoso, divertente ed eccessivo nei luoghi dove la merce, in particolare il cibo, si guarda, si acquista, si vende, si consuma e si butta via nella città in cui si è trasferita nel 2018. C’è di tutto: il supermercato con le file di carrelli, cataste di carta igienica che possono diventare nascondigli, frutta e verdura impilate in maniera perfetta ma in cui spuntano elementi bizzarri e disordinati; botteghe di quartiere dove tra salsicce appese, tovaglie e piante non è strano intravedere una foto incorniciata o un piccolo busto di un Gesù addolorato.
Ci sono i deli con i bodega cats, gatti in carne e ossa che si aggirano serenamente nei locali tra i clienti e le merci esposte. E ci sono le strade, dove le persone mangiano camminando oppure si siedono su una panchina insieme al loro animale domestico e condividono il pasto. Al termine di questa catena produttiva carnevalesca ci sono gli avanzi, i resti della nostra noia e sazietà, che lasciamo con noncuranza a piccioni, ratti e procioni.
Per sei anni, Lucia Buricelli ha ritratto New York come un ecosistema dinamico e caotico, allo stesso tempo compresso ed esploso. Sfogliando il libro quasi non si respira, perché ci si sente sopraffatti dalla vicinanza con questo eccesso, accentuato dallo sguardo grafico che la fotografa ha per le ripetizioni e gli accostamenti cromatici. Nata a Venezia nel 1994, si stenta a credere che abbia cominciato a scattare in bianco e nero. Quando era studente all’International center of photography un insegnante l’ha costretta però a provare il colore: “Sono contenta che sia andata così”, racconta ripensando a quella fase iniziale, “ora quasi non riuscirei a tornare indietro. I colori sono diventati un modo per selezionare il mondo intorno a me, per scegliere dei pezzi”.
Don’t feed the animals è in effetti costruito da pezzi, da dettagli che vanno a comporre una narrazione più grande, un paesaggio urbano pulsante e inarrestabile, dove le interazioni tra gli elementi, viventi e non, restituiscono uno spaccato grottesco del capitalismo.