Ancora una volta si parla di ‘fine vita’, e di capacità di autodeterminazione nella relativa opzione, da parte di soggetti che si trovino in particolarissime condizioni di salute precaria, e segnatamente  siano tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale e siano affetti da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che essi reputino intollerabili, ma siano pienamente capaci di prendere decisioni libere e consapevoli (laddove peraltro tali condizioni e le modalità di esecuzione delle procedure finalizzate a estinguerne l’esistenza siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente).

L’occasione è data da una recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 132 dep. in Cancelleria il 25 luglio scorso) cui è stato  richiesto  (dal Tribunale di Firenze) di pronunciarsi sulla (supposta) illegittimità costituzionale di un articolo del nostro codice penale (art. 579 c.p. che disciplina, come è noto , l’ipotesi dell’ omicidio del consenziente prevedendo una pena da sei a quindici anni di reclusione), nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, sussistendo le condizioni di accesso al suicidio medicalmente assistito, attui materialmente la volontà del malato il quale, per impossibilità fisica e per assenza di strumentazione idonea, non possa procedervi in autonomia.

Insomma viene messa a fuoco la questione della responsabilità (penale) di un terzo soggetto (nella fattispecie concreta si trattava del medico di famiglia della paziente malata) che attui la sua consapevole e libera volontà di porre fine ai suoi giorni, sussistendo quelle particolarissime condizioni di indicibile sofferenza che in altra sede (v. sent. n.ro 242 del 22.11.2019) la medesima Corte aveva già indicato come sufficienti e necessarie al fine di escludere la responsabilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile.

Nel caso concreto si è tratto di una persona affetta da sclerosi multipla a decorso progressivo primario, paralizzata dal collo in giù, che versa nell’impossibilità materiale di procedere all’autosomministrazione del farmaco letale, in quanto priva dell’uso degli arti, a causa della progressione della malattia, e non essendo reperibile sul mercato la strumentazione necessaria all’attuazione autonoma del suicidio assistito, cioè una pompa infusionale attivabile con comando vocale ovvero tramite la bocca o gli occhi, uniche modalità consentite dallo stato attuale di progressione della malattia.

La persona si è rivolta, con un ricorso per un provvedimento d’urgenza, al Tribunale, per ottenere l’autorizzazione per il proprio medico di famiglia a procedere alla infusione del farmaco letale, che ella non era più in grado di autosomministrarsi.

Ma il Tribunale non si è pronunciato e a sua volta ha rimesso, come si diceva, alla Corte Costituzionale la questione della legittimità o meno di quell’articolo del codice penale (art. 579 c.p.) che di per sé comporterebbe l’irrogazione di una pena molto severa per il medico, terzo chiamato in causa dalla sua paziente: questione fondata su di una presunta violazione dell’art. 3 della Costituzione (quello, per intendersi, della pari dignità ed eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini, per l’irragionevole disparità di trattamento che verrebbe a prodursi rispetto alla situazione sostanzialmente identica in cui la persona malata abbia la capacità di attivare con le sole sue forze la procedura letale.

Inutile qui ripercorrere tutte le serpentine del ragionamento (anche molto tecnico) elaborato dai Giudici della Corte: basterà dire che essa ha dichiarato che non sussistono validi motivi fondanti una pronuncia di illegittimità costituzionale della norma incriminata, ma non tanto (si badi bene) perché di per sé  l’intervento di un terzo ‘coadiuvante’ nello svolgimento dell’intera procedura letale della persona gravemente malata e autodeterminatasi a sopprimersi non venga considerato plausibile, laddove ricorrano quelle peculiari condizioni cui si accennava, ma perché essa ha ritenuto che il giudice fiorentino non avesse indagato in modo soddisfacente in ordine alla possibile reperibilità di strumenti di autosomministrazione della sostanza capace di porre fine alla vita attivabili da persone che si trovano nel medesimo stato clinico della paziente ricorrente.

In altre parole viene criticata la scelta dei giudici del Tribunale di Firenze, i quali si sarebbero “arresi” di fronte alla verifica svolta solo presso l’ ASL della Regione Toscana circa l’inesistenza attuale di siffatti strumenti, “allo stato non presenti sul mercato“, azienda che avrebbe a sua volta riferito ai Giudici di aver «pubblicato un avviso di consultazione di mercato, finalizzata a individuare potenziali fornitori, in modo da poter individuare un percorso di acquisto il più possibile confacente alle necessità espresse».

La Corte al contrario rileva che sarebbe stato necessario il coinvolgimento di organismi specializzati operanti, col necessario grado di autorevolezza, a livello centrale, come, quanto meno, l’Istituto superiore di sanità, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale, al quale sono assegnate specifiche funzioni istituzionali di natura consultiva, anche per le aziende sanitarie locali. Ciò sarebbe sufficiente, ancora nell’opinione dei Giudici della Corte, per non ritenere ammissibile alcuna questione di legittimità costituzionale.

Come si notava tra le righe, la questione “sostanziale” sottesa alla vicenda portata all’attenzione dei Giudici sembra essere passata inosservata, o, per meglio dire, risolta indirettamente: tant’è che i giudici stessi in un passaggio della pronuncia sottolineano la possibilità che laddove emergesse la reperibilità, in tempi ragionevoli, di strumenti di autosomministrazione della sostanza capaci di porre fine alla vita attivabili da persone nel medesimo stato clinico della paziente ricorrente, questi andrebbero messi a loro disposizione dal Servizio sanitario locale per consentirgli di accedere alla procedura letale, nell’esercizio della propria facoltà di autodeterminazione.

Il tema come si vede è complesso e si rischia, spesso, di valutarne solo alcuni profili, e in una prospettiva di puro formalismo.

Il punto è che in una materia così poliedrica come quella in parola le valutazioni, anche giuridiche, tanto più quelle umane e di rilevanza sociale, andrebbero fondate su di un testo legislativo di cui si avverte sempre più la latitanza (e di cui gli stessi giudici della Corte hanno più volte invocato la formulazione), e che possa essere frutto di una concertazione allargata e scevra da apriorismi di qualunque tipo.

Mai come in questa tematica, andrebbe fatto tesoro del saggio ammonimento – che è soprattutto un principio di vita – contenuto nella esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii Gaudium…”La realtà è superiore all’idea”.

Le idee su temi come questo sono ed è giusto che siano le più diverse e disparate, ma la ‘realtà’ resta sempre unica, oggettiva, ed irreversibile…e dovrebbe essere fatto da tutti – in primis da chi è depositario della funzione legislativa – lo sforzo di affiancarle alla realtà per poterla poi in qualche modo assumere ed evitare di argomentare discostandosi proprio da essa. Come profeticamente scriveva Romano Guardini,«L’unico modello per valutare con successo un’epoca è domandare fino a che punto si sviluppa in essa e raggiunge un’autentica ragion d’essere la pienezza dell’esistenza umana, in accordo con il carattere peculiare e le possibilità della medesima epoca».