Il progetto “La casa dell’attesa” in Angola – Nicola Berti / Cuamm
Un libro può nascere con l’intuizione di un titolo, prima ancora di averne chiara la trama? È così che lo scrittore torinese Fabio Geda è stato conquistato dall’idea di scrivere dell’Angola, della maternità, di quale senso dare alla cooperazione internazionale in tempi difficili come quelli contemporanei. Così, ascoltando gli operatori di Medici con l’Africa – Cuamm, ha deciso di raccontare un ambiente speciale, laggiù nella remota regione del Cunene, nel sud-ovest del Paese, negli altopiani al confine con la Namibia: una struttura lunga e bassa, a fianco all’ospedale rurale, dove le donne di una vastissima area circostante si trasferiscono per trascorrere l’ultimo mese di gravidanza. La casa dell’attesa, si chiama l’edificio, ed è così che Geda ha intitolato il suo libro (Laterza, pagine 168, euro 16,00), un racconto d’autore vibrante e ricco di emozione, il resoconto della sua missione accanto ai medici del Cuamm. E pensare che Geda, reso famoso dal drammatico racconto della fuga di un adolescente afghano verso l’Europa, il bestseller del 2010 Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, l’Africa prima dell’Angola non la conosceva affatto o ben poco.
Forse è proprio questo sguardo vergine che illumina di una luce quasi epica il racconto di Geda: lo stupore di addentrarsi in un Paese immenso, con mille problemi, accanto a persone che arrivano da un altro continente per fare la differenza e rendere più sopportabile la vita dei suoi abitanti.
Il prossimo 22 novembre Medici con l’Africa – Cuamm, impegnati in diversi progetti sanitari in 9 Paesi, festeggiano i 75 anni di vita. Li conosceva prima di accettare la proposta di Laterza di scrivere di loro?
«Solo di nome. Poi li ho incontrati nella loro sede, a Padova. Mi hanno convinto lo sguardo e le parole del direttore don Dante Carraro e delle persone che mi descrivevano il loro lavoro. Mi sono sentito a casa».
È vero che in quel primo incontro non aveva ancora idea di cosa ne sarebbe venuto fuori?
«Sì, sono partito al buio. Mi sono messo in ascolto aspettando che qualcosa, un particolare, una esperienza, accendesse in me una luce. Quando hanno parlato dell’Angola, dell’ospedale di Chiulo e della “Casa dell’attesa”, ho pensato che questo fosse un titolo stupendo».
Cos’è la “Casa dell’attesa”?
«È un edificio in cui le donne vanno poche settimane prima del tempo previsto per il parto. L’ospedale di Chiulo serve un territorio enorme e spesso le partorienti non riescono ad arrivare in tempo, mettendo a rischio la propria vita e quella del figlio. Così è nata l’idea di costruire una casa accanto all’ospedale, dove si attende insieme ad altre donne, facendosi compagnia e prendendosi cura una dell’altra, come in un villaggio. È una strategia frugale per contrastare la mortalità infantile perinatale. In portoghese si dice “Casa de espera”, e il concetto di attesa si mischia in italiano a quello di speranza. Ho capito che attesa-speranza poteva diventare un filtro per raccontare molto altro, per parlare del tempo, del modo in cui facciamo le cose. La stessa “Casa dell’attesa” è nata 12 anni dopo l’arrivo del Cuamm nel Cunene: all’inizio c’erano 12 donne, quando sono stato io erano 70. Sono stati necessari anni per creare relazioni, fiducia reciproca. Quella piccola grande intuizione ha ridotto del 55% la mortalità perinatale. Vuol dire che un bambino su due moriva e oggi non muore più. A Chiulo avvengono 2mila parti all’anno: capisce che risultato straordinario in termini di vite salvate in una profonda provincia dell’Africa subsahariana?».
Espera dunque è attesa ma ricorda anche la speranza: cosa c’è dentro questa parola dal significato per noi doppio?
«C’è un modo di stare accanto alle persone, in maniera non prestazionale, cioè non legata ai risultati immediati, ma con l’attenzione di incontrarci sulla soglia, al confine, in un punto in cui ci si rispetta e ci si definisce a vicenda. È una modalità di fare cooperazione: si fa la storia, senza volerne essere protagonisti. È accettare che i risultati di quello che fai non li vedrai tu: quello che ho visto in Angola, accanto al Cuamm, è che l’importante è stare accanto alla gente e aiutarla a crescere e a camminare con le proprie gambe. Se ci pensiamo è l’esatto contrario di ciò che la maggior parte delle persone desidera: godere dei risultati di ciò che fa, per esibirli in un selfie».
Nel libro descrive decine e decine di incontri, di persone: le dottoresse e le ostetriche italiane, i ragazzini di Luanda, gli specializzandi dell’ospedale di Chiulo, i medici… ce n’è qualcuno a cui si è affezionato di più?
«Sono stato con il Cuamm in Angola due volte, entrambe nel 2024: la prima per un sopralluogo, la seconda per un mese e mezzo. Ho raccolto decine e decine di storie; per il libro ho approfondito quelle che diventavano fili di una tessitura che potesse raccontare la complessità di quei luoghi. Il ragazzo che fa l’autista di taxi ma sogna di aprire una fabbrica di yogurt, ad esempio, ha rappresentato per me la bellezza dell’Africa che vuole diventare altro da sé, l’Africa giovane, piena di inventiva e di sogni imprenditoriali. E all’ospedale rurale di Chiulo, l’infermiera Felismina, la Mary Poppins del Cunene, alta alta con la borsa piena di cose; vive dentro l’ospedale e ospita a casa sua i parenti dei pazienti. E poi la doppia faccia del rapporto madre-figlio: da una parte la dolce attesa delle partorienti nella “Casa de espera”, e più in là, separate solo da un muro, nell’ospedale, l’attesa angosciosa delle mamme: sopravviverà il loro bambino alla malnutrizione? A distanza di venti metri, la vita e la morte. Mi ha colpito che le mamme aspettino anche due o tre mesi prima di dare un nome al figlio per essere sicure che sopravviva. Ecco ancora il concetto di attesa».
Il suo libro è uscito nelle stesse settimane in cui il presidente Trump ha cancellato gli aiuti all’agenzia americana per la cooperazione. Cosa ne pensa?
«Penso che mentre ci sono molti che distruggono, e di loro si parla tanto, c’è un mondo che silenziosamente costruisce. Tanti criticano la cooperazione perché “bisogna smettere di aiutarli perché altrimenti non cammineranno mai con le proprie gambe”. A loro vorrei dire che esistono modelli diversi, che accanto al Cuamm ho visto persone competenti insegnare ad altre persone a diventare competenti e nel frattempo salvare vite».
Lei racconta che una dottoressa prima di partire le disse: «Vedrai, a Chiulo non c’è niente. Ma fai attenzione, perché potresti trovare tutto quello che stai cercando. E se ancora non sai cosa stai cercando, be’, lo troverai a Chiulo». Ebbene, cosa ha trovato in Angola?
«Alla fine il concetto che si è sedimentato in me è quello dell’attesa, del fare la storia senza pretendere di vederla fatta. Simone Weil diceva: “Ogni volta che facciamo le cose con cura distruggiamo il male che è in noi”. Ecco, credo che sia importante oggi fare meno e fare meglio. Vale anche per me. Credo anche che avrà un impatto nella mia vita l’idea del prendersi cura, che non vuol dire curare. Non credo nel valore strettamente terapeutico del libro, ma credo che i libri possano prendersi cura del mondo, avendo cura delle storie che racconto. Non posso salvare vite con il mio lavoro, ma posso prendermi cura di quelle vite».