In un ristorante trendy dell’East Village che ricorda una specie di mausoleo, tre componenti del gruppo inglese dei Radiohead e un paio di giornalisti americani sorseggiano vino e chiacchierano delle loro nuove band preferite. Mentre nomi come Mercury Rev, Supergrass e Geraldine Fibbers vengono lanciati come fossero mangime per piccioni, il cantante Thom Yorke aggrotta le sopracciglia infastidito, si copre le orecchie con le mani e canticchia per isolarsi dalla conversazione. Alla fine si batte i pugni sulle ginocchia e grida: «Non state parlando di musica, queste sono solo opinioni. Possiamo parlare di qualcos’altro?». Si passa ai film, ma Yorke alza gli occhi al cielo e torna a imbronciarsi.

Signori e signore, ecco Thom Yorke, la mente che sta dietro al pop deliziosamente inquietante dei Radiohead. Gli sfoghi emotivi sono all’ordine del giorno per il cantante il cui tormento interiore ha portato la band alla notorietà sin dal 1993, quando il singolo Creep ha contribuito a far certificare Pablo Honey disco d’oro. Ma l’indole di Yorke contrasta nettamente con l’atteggiamento passivo dei suoi colleghi del gruppo. Poche ore fa, mentre lui era collassato sotto un tavolo, i chitarristi Jonny Greenwood e Ed O’Brien, il bassista Colin Greenwood e il batterista Phil Selway mangiavano panini dall’altra parte della stanza e si divertivano con un gioco emozionante: non era poker, né gin rummy, ma bridge.

Yorke dice di essere «sempre stato melodrammatico in ogni circostanza», ma anche lui tende a evitare le piazzate. I Radiohead non hanno mai lanciato un televisore dalla finestra e qualche settimana fa, quando l’artista che apriva per loro, David Gray, ha distrutto il camerino della band, loro hanno rimesso tutto in ordine dopo che l’entourage di Gray se n’era andato. Quando i Radiohead partiranno in tour con i R.E.M. e i Soul Asylum, in autunno, probabilmente non toccheranno nemmeno i vassoi del catering senza prima chiedere il permesso agli headliner. «Siamo tutti figli della classe media di Oxford e lì regna un’atmosfera impregnata di cortesia alla quale è difficile sottrarsi», spiega O’Brien con tono pacato, facendo spallucce.

Questo garbo rende ancora più avvincenti le melodie turbolente dei Radiohead. Alternando tremiti di insicurezza straziante e un’angoscia autoironica, il nuovo album della band, The Bends, è un ottovolante emotivo che non trova mai un equilibrio. A differenza di gruppi come i Green Day e i Red Hot Chili Peppers, le cui canzoni riflettono la loro personalità, il pop distorto dei Radiohead esprime emozioni come l’inadeguatezza sessuale, la paura esistenziale e la rabbia: sentimenti che la maggior parte dei membri della band ha difficoltà a comunicare senza l’ausilio di amplificatori e chitarre. «L’unico momento in cui mi sento a mio agio è quando sono davanti a un microfono», afferma Yorke, che sembra un incrocio tra John Lydon e Martin Short. «Sono ossessionato dall’idea di perdere del tutto il contatto con me stesso e sono giunto alla conclusione che Thom Yorke non è altro che il ragazzo che scrive quelle canzoni dolorose».

«A volte mi domandano se sono felice e io rispondo di andare affanculo», racconta Yorke, più tardi, nel bar del suo hotel. «Se fossi felice, sarei in un cazzo di spot di automobili. Tante persone pensano di essere felici, ma conducono vite noiose e fanno le stesse cose ogni giorno. Poi a un certo punto si svegliano e si rendono conto di non aver ancora vissuto. Preferisco di gran lunga celebrare gli alti e bassi della vita quotidiana piuttosto che cercare di negarli».

Yorke sembra sguazzare nella tensione e nella precarietà: ama il ruolo dell’artista tormentato che si è creato. «Non gli piace sentirsi soddisfatto», dice Selway. «Quando le cose vanno bene, lui le manda tutto all’aria così da ritrovarsi in uno stato di incertezza. È così che dà il meglio».

Questo continuo movimento plasma pezzi come My Iron Lung e Planet Telex, caratterizzati da cambiamenti di mood sonoro repentini che spaziano dalla disperazione sommessa alla frustrazione rabbiosa. Ma i sentimenti predominanti sono il rimpianto e l’isolamento. Dal brano che dà il titolo all’album The Bends, in cui Yorke proclama “Ho bisogno di lavarmi di nuovo per nascondere tutto lo sporco e il dolore / Avrei paura se sotto non ci fosse nulla / E chi sono i miei veri amici?”, fino al pezzo che ha lanciato la sua carriera, Creep, in cui Yorke si chiedeva “Che diavolo ci faccio qui?” ed esclamava “Vorrei essere speciale”, le canzoni dei Radiohead sono narrazioni di un cinico disadattato che vuole solo essere amato. «Fin dal giorno in cui sono nato provo un senso di solitudine opprimente», spiega Yorke. «Forse molte altre persone sentono la stessa cosa, ma non ho nessuna intenzione di andare per strada chiedendo a tutti se sono soli come me. Probabilmente mi rinchiuderebbero».

Yorke è nato a Wellingborough, in Inghilterra, nel 1968 ed è cresciuto in Scozia, vicino a una spiaggia piena di bunker e filo spinato della Seconda Guerra Mondiale. Suo padre vendeva attrezzature per l’ingegneria chimica ed era stato un campione di pugilato a livello universitario. «Una delle prime cose che mi ha comprato è stato un paio di guantoni da boxe», racconta Yorke. «Cercava di insegnarmi a boxare, ma ogni volta che mi colpiva cadevo a terra». Quando Yorke aveva 8 anni, la sua famiglia si è trasferita a Oxford. A 10 anni lui ha formato la sua prima band e due anni dopo è finito in un collegio maschile vicino ad Abingdon, dove ha trascorso alcuni dei suoi anni peggiori. Aveva pochi amici, litigava spesso e, nonostante fosse allenato, di solito aveva la peggio nelle scazzottate. I suoi problemi sociali erano amplificati da un’anomalia all’occhio sinistro per la quale veniva preso in giro impietosamente, ma che da allora ha imparato ad accettare. «Quando avevo 18 anni, lavoravo in un bar; è entrata una tipa un po’ pazza e ha detto: “Hai degli occhi bellissimi, ma sono completamente sbagliati”. Ogni volta che divento paranoico, ci penso».

Dopo avere mollato un gruppo punk di gente della sua scuola, Yorke ha deciso di fondare una propria band coi compagni di classe O’Brien (perché somigliava a Morrissey) e Colin Greenwood (perché si vestiva in modo bizzarro e andava a un sacco di feste); poco dopo ha completato la line-up con Selway e il fratello di Greenwood, Jonny. Hanno adottato il nome Radiohead, ispirandosi a una canzone dei Talking Heads dell’album True Stories, e, nel 1991, finalmente hanno ottenuto un contratto discografico.

È vero che i turbamenti di Yorke hanno una notevole influenza sul sound dei Radiohead, ma la band è molto più che il semplice prodotto di una mente tormentata. Yorke costruisce le montagne russe emotive dei Radiohead, ma Colin Greenwood è quello che ne lubrifica i binari. «Thom scrive canzoni che suonano come un Elvis Costello un po’ più cupo, poi io intervengo e aggiungo parti e accordi extra per renderle più interessanti», spiega. «Tollero così poco la noia che ho mi serve sempre qualcosa in più di alcune buone canzoni per mantenere viva la mia attenzione».

Dal vivo, Greenwood si rifiuta di suonare assoli studiati in anticipo: per lui i concerti sono opportunità per sperimentare col suono. «Non credo che potrei mai suonare qualcosa di nuovo dopo averlo già sentito 100 volte», dice. «Non sarei spontaneo e non ci sarebbe alcuna possibilità di errore».

Quando c’è da fare del rock, i Radiohead non deludono mai. Durante un recente concerto a Denver, in un localaccio fatiscente e affollato che sembrava una specie di fienile, la band ha sfoggiato un certo carisma sessuale e un’energia tale da far urlare il pubblico disidratato. Ma quando, dopo lo show, si sono avvicinate delle donne attraenti e provocanti, i ragazzi del gruppo non si sono dimostrati molto ben disposti. «Non ho mai approfittato dell’opportunità di farmi delle avventure di una notte», dice Greenwood. «Sarebbe come trattare il sesso come uno starnuto. Il sesso è un’attività piuttosto disgustosa, che coinvolge parti del corpo pelose e maleodoranti, troppo intima per essere praticata con persone sconosciute. Sono favorevole all’erotismo a livello di fantasia, ma il lato fisico è qualcosa di diverso».

Per Yorke, la sessualità è una faccenda ancora più complessa. «Provo un enorme senso di colpa per qualsiasi desiderio sessuale io abbia», dice, «quindi finisco per passare tutta la vita a pentirmi perché sono attratto da qualcuno. Anche a scuola le ragazze per me erano così meravigliose che mi facevano morire di paura. Mi masturbo molto. È così che affronto il problema».

Oltre ad attirare le groupie, la musica introspettiva dei Radiohead ha affascinato una serie di personaggi eccentrici solitamente più interessati a band come Slayer e Pantera. Qualche settimana fa, in Canada, un fan ha insistito perché Greenwood gli autografasse il braccio, poi è tornato il giorno dopo con la firma tatuata. E, dopo l’uscita di Pablo Honey, un assassino inglese che si identificava con il protagonista di Creep ha scritto a Yorke una lettera raggelante dalla prigione. «Diceva: “Sono il mostro di quella canzone. Ho ucciso questo tizio. Mi hanno costretto a farlo. Non sono stato io, sono state le parole nella mia testa”, racconta Yorke. «Mi sono sentito come se qualcuno avesse calpestato la mia tomba».

The Bends è movimentato dinamico e passionale, ma non è un album di facile ascolto. Chiunque si aspetti le melodie fluide di Pablo Honey potrebbe rimanere spiazzato da questo amalgama di rumori sperimentali e bellezza meditativa. Ma è proprio tale dicotomia che trasforma le canzoni della band da semplici brani pop in veri e propri tira e molla tellurici. «È tutto un riflesso di noi stessi», dice Yorke. «È un disco cinico e nervoso e non ha senso. Alla fine hai la sensazione che ci sia qualcosa che non va, ma non riesci a capire cosa».

Questo articolo è tratto dal numero del 7 settembre 1995 di Rolling Stone.