“Si comunica che l’esponente dell’esecutivo che ha coordinato le varie fasi della vicenda oggetto di accertamento è il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri Alfredo Mantovano“. Così, nel corso delle indagini sulla liberazione del generale libico Osama Almasri, l’avvocata Giulia Bongiorno – legale dei membri del governo indagati – suggerì al Tribunale dei ministri di Roma di sentire Mantovano al posto del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che invece era stato espressamente convocato dalle tre giudici del collegio ma aveva scelto di non presentarsi.
L’interrogatorio di Nordio era stato fissato per il 23 maggio, ma il giorno prima, il 22, Bongiorno aveva inviato una comunicazione al tribunale in cui informava che il Guardasigilli aveva “valutato“ di non comparire. Allo stesso tempo, però, l’avvocata segnalava la disponibilità di Mantovano, Autorità delegata all’Intelligence, “a svolgere tale atto, che è da intendersi riassuntivo delle posizioni di tutti gli indagati” (oltre a Nordio e Mantovano, anche la premier Giorgia Meloni, poi archiviata), “nell’ipotesi in cui l’esigenza avvertita dal Tribunale dei Ministri nel disporre l’interrogatorio sia quella di acquisire elementi conoscitivi anche dal governo, nelle persone dei soggetti iscritti nel registro degli indagati”. In calce alla lettera venivano individuate anche quattro possibili date per svolgere l’atto: 3, 4, 5 o 13 giugno.
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Il Tribunale, però, non ha seguito la strada suggerita dalla senatrice leghista. “Preso atto della volontà manifestata dal ministro della Giustizia di non rendere interrogatorio” e “ritenute non fungibili“, cioè non equivalenti, “le posizioni dei due indagati”, le giudici chiarirono il 28 maggio “non ravvisare, allo stato, l’esigenza di sentire il dottor Mantovano”, salvo che la comunicazione di Bongiorno non fosse “da intendere, con riferimento alla posizione di quest’ultimo, come espressa richiesta di essere interrogato e/o di rendere spontanee dichiarazione”. Cosa che, evidentemente, non era.
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