Michael Willemsen, di origine belga, risiede in una vecchia baita dal 2017, in una solitudine quasi completa, se non fosse per gli occasionali turisti che salgono in giornata durante l’estate. Il paesino dove vive, Prato Gaudino, frazione di Cervasca, è stato completamente abbandonato tra gli anni Sessanta e Settanta. Oggi, della ventina di case che ne fanno parte, l’unica ad essere abitata è proprio l’ “Eremo di Pragudin”, come Michael ha voluto battezzare la sua baita.
Michael vive il suo isolamento come qualcosa di tutt’altro che eccezionale, semmai come la naturale maturazione delle sue esperienze precedenti. Egli descrive il suo come “un percorso di esplorazione, geografico e interiore, segnato dalle bussole della solitudine e del silenzio, con tutte le rinunce e rivelazioni che una tale avventura comporta lungo i sentieri del mondo”.
Abbiamo voluto approfittare della sua disponibilità per interrogarlo circa alcune delle esperienze che lo hanno portato fino alla sua attuale scelta di vita in montagna, e su cosa significhi abitare uno degli innumerevoli borghi abbandonati che costellano le valli alpine della provincia di Cuneo.
Com’è nata la sua passione per la montagna?
Sono cresciuto in un paesino vicino ad Anversa. Lì, nella Fiandre, le uniche montagne da scalare sono le dune affacciate sul Mare del Nord. Fortunatamente in famiglia si viaggiava molto: puoi immaginare l’impatto quando scoprii per la prima volta i ghiacciai in Svizzera e Austria. È qualcosa che lascia un segno profondo. Dopo la scuola in Spagna e la laurea in archeologia, sono arrivato a Roma nel ’93 come ricercatore universitario presso l’accademia del Belgio. Era un periodo piuttosto dedito al lavoro quello, tra biblioteche, studio e ricevimenti vari. Eppure ero irrequieto, e siccome la mia ricerca portava sul rapporto tra eventi storici ed eruzioni vulcaniche, ho deciso di trasferirmi al Sud. Ma invece di abitare sulle falde dell’Etna, come era l’intenzione iniziale, sono finito sull’Aspromonte, dove mi sono anche sposato. La Calabria degli anni ’90 era la dimostrazione stessa di come non serviva viaggiare lontano per complicarsi la vita. Vi erano ancora zone pressoché sconosciute da esplorare. Oggi ci sono le guide escursionistiche, ma allora ogni incursione nell’entroterra si trasformava in una sorta di missione antropologica dagli esiti incerti. Quindi, ho vissuto cinque anni a Belluno. Un’estate ho seguito un corso del Cai per essere operatore naturalistico. È così che ho scoperto le Dolomiti. Una vera e propria rivelazione. Spettacolari, eleganti, quasi spirituali nella loro verticalità. Se oggi penso alle montagne, vedo soprattutto le Dolomiti, non c’è molto altro nella mia memoria che regge il confronto sul piano estetico.
Eppure ha scelto ancora una volta di cambiare vita…
Sì, avevo un’età, intorno ai 33-34 anni, in cui di solito si prendono decisioni fondamentali per tutto quello che verrà dopo. Lascio Belluno, abbandono la carriera in archeologia, e parto di punto in bianco per una vita nomade. Comincio in un piccolo Volkswagen autocarro con un materasso sul retro, poi in un camper furgonato. Per dieci anni non ho rimesso piede in una casa. È stato il periodo più intenso e più bello. D’estate lavoravo in Norvegia nei frutteti del Hardangerfjord, come bracciante agricolo. Era pagato bene e il meraviglioso paesaggio nella baia di Ulvik rimane un ricordo indelebile. Poi, verso ottobre, scendevo in Provenza per fare un’ultima stagione di raccolta delle olive, prima di svernare nel profondo Sud del Marocco. Ogni anno facevo così la spola tra i paesaggi artici dell’altopiano di Hardangervidda, dove vedevo pascolare le renne, e le oasi sahariane dove incrociavo le mandrie di dromedari. In quello stesso periodo, ho cominciato a studiare e a distinguere sempre meglio le meteoriti: era una zona perfetta per trovarli. Nel 2011 c’è stata la caduta di una meteorite marziana, esplosa nel cielo sopra Tissint. Un evento rarissimo. Fortuna volle che sono stato uno dei primi sul posto per raccogliere i frammenti, dispersi un po’ ovunque in un raggio piuttosto ampio. Negli anni successivi ho gradualmente venduto questi campioni, di cui il valore sul mercato era superiore per grammo rispetto a quello dell’oro.
Dopo tutto questo, perché ha scelto di fermarsi a Prato Gaudino? Com’è vivere lì?
L’ultimo frammento di meteorite l’ho venduto nel 2016, proprio per riuscire a comprare la baita. Da allora non mi sono più mosso da qui, ho fondato l’eremo, e vorrei passare quello che mi resta da vivere in questi boschi. È una scelta spontanea dopo una maturazione lenta. La mia vita è sempre stata molto solitaria e contemplativa, vissuta per lo più in natura. Ritirarmi a Prato Gaudino è stato come approdare alla terraferma dopo un lungo viaggio. Anche se fatico a vedere questo luogo come “isolato”. Paradossalmente, si può dire che rappresenta quasi un ritorno alla società. Non ho mai fatto tanti incontri da quando ho scelto di eclissarmi.
Per me, vivere in montagna vuol dire starci tutto l’anno, soprattutto d’inverno, cinque o sei mesi in cui non si può fare molto: fa freddo, c’è la neve. È proprio quella la stagione che amo di più, la più contemplativa, la più magica. Io non ho né macchina né bicicletta, non mi sposto quasi mai. Questo richiede di avere delle risorse interiori, e una vocazione per questo tipo di vita. Serve coltivare una dimensione spirituale, quella che permette di non focalizzarsi troppo sul presente, sul qui e ora. La lettura, lo studio, la conoscenza: queste cose ti rendono autonomo, senza di esse corri il rischio di spegnerti. Per me sarebbe una follia adeguare le mie giornate unicamente all’ambiente che mi circonda. Dopo qualche tempo il cervello rischia di raggrinzire, la coscienza si chiude alla complessità del mondo. Per abitare stabilmente in montagna, credo pertanto sia necessario fare uno sforzo consapevole per de-coincidere con l’ambiente.
Come abitante di montagna, sente il peso di uno sguardo urbanocentrico?
La montagna si trova presa in ostaggio da una visione onirica, irreale e spesso delirante, frutto di una prospettiva che la guarda dalla pianura e dalla città. È una forma di sublimazione che tende a relegarla a simbolo di un “ritorno al selvaggio” o a luogo di esaltazione eroica della conquista. Della montagna abitata e vissuta, infatti, se ne parla poco. A Prato Gaudino non vivo in un romanzo di Tolkien. Questo non è un reame fantasy. Io qui passo l’estate a tagliare rovi e ricostruire muretti crollati durante l’inverno.
Tra i cliché più consolidati vi è senz’altro una visione bucolica della montagna. Come se, a partire da una certa altitudine, sia scritto che bisogna avere mucche, pecore o capre. Una volta è passato un escursionista per chiedermi se vendevo formaggio d’alpeggio. In questi tempi di IA e di profondi cambiamenti antropologici, non ha molto senso far coincidere la percezione della montagna con un’attività agricola ormai quasi scomparsa.
L’ambientalismo stesso, pur essendo una galassia vasta e varia, come “-ismo” è un’ideologia figlia della città. Di conseguenza, le proiezioni distorte non mancano. Si pensi al culto della wilderness o allo stigma che subisce la gestione forestale. Quello di Prato Gaudino è un bosco sempre più fitto, inselvatichito, con alberi esili e fragili cresciuti a mezzo metro uno dall’altro. Un bosco impoverito sul piano della biodiversità, sempre più buio, silenzioso e fantomatico.
Purtroppo, si assiste anche a uno sfruttamento commerciale di queste proiezioni. I mercanti di fumo si moltiplicano, è un business in piena espansione, dal turismo wellness ai ritiri spirituali “green” che promettono una saggezza “chiavi in mano”. Allora c’è chi prende la palla al balzo, e ne fa un lavoro, o chi invece si oppone a questa deriva e passa magari per fesso.
Come si riesce a trovare, allora, un modo per autodeterminarsi anche nella solitudine?
L’avere una vocazione contemplativa aiuta. Esercitarsi a mantenere vivace una forte curiosità intellettuale, direi che per me è indispensabile. La solitudine è un potente catalizzatore di tutto ciò che uno già è; e lo stesso si può dire dall’isolamento fisico nella natura. La montagna non sarà mai uno specchio salvifico, non ti salva proprio di nulla, solo amplifica tutto quello che uno già si porta dentro. Passeggiare tra le vette e i boschi può darti un breve sollievo da una preoccupazione, o piuttosto regalarti la sensazione di una serenità per qualche tempo. Ma non ti permette di passare un intero inverno in solitudine. Per questo serve coltivare uno stato di animo diverso, che non dipende da fattori esterni e contestuali. Nessun input esterno, per quanto bello e grandioso, ti risolve i problemi come per magia. Se uno non riesce a vivere in compagnia di sé stesso, meglio non provarci da eremita in un posto isolato. In realtà la chiave di volta della vocazione eremitica è proprio la capacità di distacco interiore. Estraniarsi non solo dal mondo ma anche da sè stessi. Si tratta semplicemente di un’abitudine come un’altra, ma necessita dedizione. Ogni giorno cerco di osservarmi da lontano, dall’alto, da fuori. Il mio percorso tra le diverse culture e lingue fa sì che non riesco a prendere troppo sul serio le certezze locali, quando sono monolitiche. Lascio spazio all’erranza, al paradosso, alla sfumatura. Diffido da ogni eccesso di coerenza forzata, quando gli schemi irrigidiscono la possibilità di cambiare, di evolvere e anche di contraddirsi.
In apertura, fotografie di Hugh Brown