In un sistema sanitario in cui le donne rappresentano oltre il 75% del personale infermieristico, la maternità continua a essere vissuta come un ostacolo organizzativo più che come una dimensione naturale della vita lavorativa. Tra turni rigidi, part-time negati e flessibilità promessa ma non applicata, molte madri si trovano davanti a un bivio: restare nel proprio reparto sacrificando la famiglia, oppure lasciare, rinunciando a competenze e identità professionale costruite in anni di servizio. La testimonianza di Francesca, infermiera con 17 anni di esperienza, è solo una delle tante voci che raccontano una realtà diffusa ma ancora poco ascoltata.
Buongiorno mi chiamo Francesca e sono fiera di essere un’infermiera
Nel 2022, in Italia, circa 1 donna su 5 (20%) ha lasciato il lavoro dopo il primo figlio.
È con queste parole che Francesca, un’infermiera con oltre 17 anni di servizio presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, apre la sua testimonianza.
Ha iniziato la sua carriera nel gennaio del 2006, lavorando per dieci anni in Chirurgia Pancreatica, poi tra il reparto di Medicina, quello Covid e due maternità. Sempre presente, a tempo pieno, tra giorni scanditi dal “turnetto”.
Poi, nel settembre del 2022, la sua vita ha subito una svolta. L’aggravarsi della malattia incurabile della madre ha reso impossibile continuare con la stessa disponibilità.
La rete familiare, che fino ad allora aveva sostenuto la gestione dei suoi due figli piccoli, si è improvvisamente allentata.
Una decisione difficile, presa non per mancanza di motivazione o di appartenenza, ma per necessità. E se è vero che l’assistenza richiede presenza, è altrettanto vero che conciliare il lavoro con la genitorialità resta, per molte professioniste sanitarie, un equilibrio instabile e spesso insostenibile.
A fronte di ritmi serrati, turni imprevedibili e scarsa flessibilità organizzativa, le madri infermiere si trovano a reggere un doppio carico: la cura professionale, che richiede lucidità e disponibilità costante, e la cura domestica, altrettanto impegnativa e continua, spesso senza il supporto di reti familiari o servizi dedicati.
Il nodo degli orari: la realtà dopo la maternità
I turni ospedalieri, articolati in mattina, pomeriggio e notte, rappresentano uno dei principali ostacoli per chi diventa genitore, in particolare per le madri. Le esigenze assistenziali non conoscono pause, ma la vita familiare, soprattutto nei primi anni di un bambino, richiede una presenza quotidiana costante, spesso non compatibile con la turnazione.
Francesca ha provato a restare. Ha cercato alternative, chiesto un part-time mattutino. Aveva il supporto di colleghi e dirigenti. Ma la macchina organizzativa si è fermata davanti a regole generali, senza spazio per adattamenti individuali. Il rientro in ospedale le è stato proposto a tempo pieno e su tre turni. Nessuna possibilità diversa.
Oggi Francesca lavora in una RSA. Ha ottenuto un part-time, è stata valorizzata fino a ricoprire un ruolo di coordinamento. Eppure, il legame con l’ospedale resta. Non solo per affezione, ma perché è lì che ha costruito la sua identità professionale.
Un’organizzazione che fa fatica ad evolvere
In Italia, nell’anno 2021 il personale dipendente del SSN ammontava a 670.566 unità di cui 68,7% donne e 31,3% uomini. Inoltre, in base i dati ufficiali Fnopi aggiornati a marzo 2024, le donne rappresentano circa il 76-77% del personale infermieristico. Una realtà che interroga l’organizzazione del lavoro, perché la sanità, pur essendo al femminile nei numeri, fatica ancora a diventarlo nella struttura.
Le richieste di part-time, previste dal Ccnl comparto sanità, sono soggette alla valutazione delle esigenze organizzative delle singole aziende. Nella pratica, non sempre si traducono in soluzioni pienamente compatibili con le necessità familiari: in molti casi, il part-time prevede comunque la rotazione su più fasce orarie, limitando l’impatto positivo sulla conciliazione vita-lavoro.
Le richieste di turni esclusivamente mattutini, sebbene spesso motivate da situazioni complesse o carichi di cura, non risultano sempre facilmente attuabili all’interno dei modelli organizzativi attuali.
Nel 2022, in Italia, circa 1 donna su 5 (20%) ha lasciato il lavoro dopo il primo figlio. Il dato nazionale conferma una tendenza diffusa anche nell’ambito sanitario, dove le difficoltà nella gestione dei turni e di orari non flessibili possono spingere le madri a lasciare il lavoro.
L’abbandono non è motivato da mancanza di voglia o competenza: nella maggior parte dei casi, è una conseguenza alle condizioni strutturali, tra cui la scarsità di servizi di conciliazione e l’assenza di modelli organizzativi pensati per la genitorialità.
Ma non sempre alle madri infermiere accade questo. Spesso cambiano direzione: ambulatori, RSA, libera professione, servizi di prevenzione. Sono ambienti che offrono maggiore prevedibilità e orari compatibili con la cura dei figli. Al tempo stesso questo significa che le strutture ospedaliere rischiano di perdere risorse preziose, formate, con anni di esperienza alle spalle.
Quando una professionista esperta è costretta a lasciare l’ospedale, si perdono anni di esperienza in setting complessi, conoscenze implicite e capacità relazionali fondamentali. L’ospedale forma, ma spesso non trattiene.
Cosa accade altrove: modelli flessibili e sostenibili
In Canada e Australia, la conciliazione tra vita e lavoro è parte integrante dei contratti del personale sanitario. In Canada, il Canada Labour Code garantisce il diritto a richiedere orari flessibili dopo sei mesi di servizio, e in Quebec i contratti collettivi prevedono orari adattabili dopo la maternità. In Victoria, in Australia, gli infermieri possono gestire autonomamente i propri turni grazie a piattaforme di self-scheduling.
In Europa, paesi come Svezia, Olanda e Danimarca hanno adottato modelli organizzativi flessibili: orari prevedibili, job sharing, rientri post-maternità guidati e possibilità di carriera anche per chi lavora part-time. In Olanda, oltre il 60% dei professionisti sanitari lavora part-time per scelta, senza ripercussioni sulla crescita professionale.
A livello complessivo, emerge come la conciliazione tra lavoro e vita familiare non sia un obiettivo irrealistico, ma una possibilità concreta laddove inserita all’interno di una visione organizzativa orientata al benessere del personale, alla sostenibilità dei turni e alla valorizzazione delle competenze, indipendentemente dalla fascia oraria o dalla presenza genitoriale.
Direzioni e sindacati: la corresponsabilità del cambiamento
Perché la conciliazione tra maternità e lavoro diventi una possibilità concreta, è indispensabile un cambiamento culturale e strutturale che coinvolga tanto le direzioni sanitarie quanto le organizzazioni sindacali. Nessun cambiamento reale può avvenire senza l’impegno congiunto di chi guida le scelte strategiche e di chi rappresenta le lavoratrici.
Le direzioni sanitarie: vincoli reali, ma anche opportunità
Le aziende sanitarie operano in un contesto complesso, segnato da carenze croniche di personale, difficoltà nella copertura dei turni notturni e vincoli economico-finanziari sempre più stringenti. In questo scenario, garantire la flessibilità ai singoli lavoratori, specie nei reparti ad alta intensità assistenziale, può sembrare una missione impossibile.
Tuttavia, è proprio la scarsità di risorse che dovrebbe spingere verso modelli più lungimiranti, capaci di valorizzare la fidelizzazione e ridurre il turnover. La perdita di una professionista formata, come accade nel caso di molte madri infermiere, comporta un costo implicito elevato in termini di know-how disperso, tempo di reinserimento e impatto sulla continuità assistenziale.
Il ruolo dei sindacati
Anche le organizzazioni sindacali possono giocare un ruolo strategico nel promuovere modelli di flessibilità più aggiornati e aderenti alle esigenze attuali. Per farlo, è necessario superare logiche statiche e puntare su strumenti dinamici, basati su criteri chiari, verificabili e periodicamente rivalutabili.
L’atteggiamento prudente, talvolta più orientato alla conservazione che al cambiamento, lascia inascoltate le esigenze delle nuove generazioni professionali. Giovani madri con carichi familiari elevati vengono escluse, mentre il sistema resta ingessato in logiche rigide, scarsamente eque. Il rischio è quello di difendere un modello statico e diseguale, che protegge chi c’è già ma non accoglie chi ha più bisogno.
In una prospettiva realmente inclusiva, la gestione del personale deve evolvere: non più solo una questione di copertura dei turni, ma un sistema orientato al benessere organizzativo, alla soddisfazione lavorativa e alla prevenzione dell’abbandono professionale.
Proposte operative per una sanità più inclusiva
Senza ideologie né contrapposizioni, è possibile immaginare un sistema più equo e flessibile, che tenga conto della vita reale delle persone. Alcune proposte:
- Criteri chiari e trasparenti per l’assegnazione del part-time, con graduatorie consultabili e priorità per chi ha figli piccoli.
- Creazione di sportelli di conciliazione aziendali, con personale formato per supportare le scelte lavorative post-maternità.
- Revisione dei turni in servizi a bassa intensità, per garantire la possibilità di orari più stabili.
- Welfare aziendale dedicato, con asili nido interni, convenzioni familiari, e supporto psicologico al rientro dalla maternità.
- Inclusione del benessere lavorativo nei sistemi di valutazione organizzativa, per misurare anche la sostenibilità sociale del lavoro.
La storia di Francesca ci ricorda che non è sempre la motivazione a mancare, ma le condizioni per poter restare. Le madri non chiedono trattamenti di favore, ma possibilità di conciliazione reali. E quando queste mancano, il sistema si priva da solo di competenze, esperienza e continuità. Nel 2025, parlare di maternità e lavoro infermieristico non è retorica, ma attualità. La testimonianza di Francesca apre una finestra su una realtà quotidiana che riguarda molte colleghe. Dare spazio a questi racconti e ascoltarli, è il primo passo per costruire una sanità che sia davvero per tutti. Anche per le madri.
Bibliografia
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