di
Marta Serafini

L’ambasciatore di Washington alla Nato: possibile una sua presenza. Ma Kiev resta in attesa

Se non fosse che «Il convitato di pietra» è il titolo di un testo di Puskin, autore russo che agli ucraini non sta esattamente simpatico, l’espressione sarebbe perfetta per descrivere la posizione di Volodymyr Zelensky.

Per tutta la giornata di ieri si sono rincorse voci sulla presenza del leader al vertice in Alaska tra Putin e Trump per discutere delle sorti della guerra. A riaccendere le speranze di Kiev, dopo il «net» di Washington e Mosca, l’ambasciatore statunitense alla Nato. In un’intervista alla Cnn, Matthew Whitaker ha definito la presenza del leader di Kiev «possibile» e, pur specificando come la decisione spetti al presidente, ha aggiunto: «C’è tempo per prenderla, al momento non è stata presa».



















































Dopo che, nelle scorse ore, da Bruxelles e dai leader europei è arrivato unanime un invito a evitare un summit «monco» e a includere nella partita i diretti interessati, nette sono state le parole di Friedrich Merz. «Speriamo e presumiamo che il governo ucraino, che il presidente Zelensky, partecipi a questo incontro», ha dichiarato in un’intervista all’emittente Ard il cancelliere tedesco che nella stessa sede ha sottolineato come sia inaccettabile «che le questioni territoriali vengano discusse o decise da Russia e Stati Uniti ignorando europei e ucraini».

Non particolarmente incoraggianti per gli ucraini, invece, i segnali che arrivano da Washington, nonostante un durissimo editoriale del Washington Post che paragona il faccia a faccia in Alaska alla Conferenza di Monaco del 1938. «Eventuali incontri con Zelensky saranno possibili solo dopo il vertice tra Trump e Putin», ha riferito la Cnn, citando un funzionario anonimo della Casa Bianca secondo il quale, sebbene la partecipazione di Zelensky ad alcuni incontri in Alaska sia possibile, non è elencato tra i partecipanti confermati al vertice Putin-Trump. Scettico e più netto — ma la posizione non stupisce data la storica antipatia del vicepresidente Usa per il leader ucraino — JD Vance che, parlando a Fox News, definisce la presenza di Zelensky «non produttiva».

Di fronte al dietrofront della Casa Bianca (Trump dapprima è sembrato aperto a un trilaterale, poi ha cambiato posizione) e al balletto di posizioni, a Kiev le bocche restano socchiuse in un comprensibile disappunto. Nonostante alla Bankova, così come in Europa, non si sia mai fatto mistero del fatto che una pace decisa senza consultare i diretti interessati non nascerebbe certo sotto i migliori auspici, una proposta irricevibile per Kiev significherebbe mettersi nella scomoda posizione di chi rifiuta il dialogo e scontenta il principale alleato, così desideroso di annunciare al mondo un accordo.

Ma non solo. Se, come è probabile secondo gli analisti, dovesse rigettare il piano di pace deciso in Alaska, la posizione interna di Zelensky si farebbe ancora più difficile di quanto già non sia. Il leader di Kiev sa bene di non poter fare concessioni territoriali a fronte di scarne garanzie. Ma non può nemmeno ignorare la fatica di un’intera popolazione stremata da oltre tre anni di guerra. E non da ultimo deve considerare il calo di consenso interno. Non solo per opportunismo politico, ma anche per questioni di sicurezza. Putin non ha mai fatto mistero di voler eliminare Zelensky in ogni modo. Non è un caso, allora, che la propaganda russa stia cavalcando come non mai un tema delicatissimo per Kiev, ossia quello del reclutamento obbligatorio. Questione su cui il Paese rischia di spaccarsi, proprio lungo quell’asse che divide l’Est dall’Ovest e su cui lo Zar sogna di vedere spezzarsi l’Ucraina.

10 agosto 2025